domenica 9 dicembre 2018

Chi ha vinto?

Ha vinto la strategia dell’odio, della paura e della rivolta.
Sentimenti che difficilmente si possono consolidare in progetto politico di grande respiro.
A meno che… alla base delle elezioni in Brasile e dell’onda populista e conservatrice di vari paesi del mondo non ci sia un piano ben architettato.

Dietro le quinte dell’elezione di Donald Trump e di Jair Bolsonaro ci sono personaggi come Roger Stone e Steve Bannon. Quest’ultimo, mentore della coalizione euroscettica The Movement, ha anche promosso recentemente in Italia corsi per leaders cattolici, lasciando trasparire un piano contro Papa Francesco e la dottrina sociale della Chiesa.
Proviamo a ricostruire alcuni ingredienti del piatto amaro di questa vittoria.

Molti degli elettori di Bolsonaro si dichiarano visceralmente “anti-PT”. Malgrado i limiti del Partito dei Lavoratori, questo sentimento di rigetto è stato alimentato da un uso spregiudicato di notizie false e calunnie, architettate ad arte negli ultimi tre anni e utilizzato in maniera sfrenata durante la campagna elettorale.
La forza di voto più consistente per la destra conservatrice è venuta da due gruppi in solida crescita nello scenario ideologico, economico e politico del Brasile: i grandi proprietari terrieri e le chiese evangeliche.

Il voto a Bolsonaro è una bandiera che molti impresari vogliono conficcare nelle tante terre ancora “libere” (secondo loro) per l’agribusiness e lo sfruttamento minerario: la foresta amazzonica, le terre indigene e le proprietà collettive degli afrodiscendenti. Disboscata già per il 20% della sua estensione, se non si interrompe questo saccheggio l’Amazzonia raggiungerà in breve un punto di inflessione, a partire dal quale non sarà più in grado di auto-alimentarsi come bioma ed entrerà in un meccanismo irreversibile di degenerazione. Il rischio della “savana amazzonica” sta aumentando considerevolmente.

Le chiese protestanti neopentecostali da tempo stanno investendo in una lobby di politici che difenda i loro interessi economico-religiosi. Nel nuovo scenario parlamentare, avremo meno deputati e senatori professori e medici, per esempio, e più pastori evangelici e militari. Il loro discorso insiste sull’ordine sociale e la moralizzazione dei costumi. In molti casi ciò viene inteso come diritto alla repressione (a volte violenta) di chi è considerato come una minaccia o non si comporta secondo il modello prestabilito de convivenza.

Se la rabbia è stato uno degli elementi determinanti, spicca in particolare il richiamo ormonale lanciato dal presidente eletto all’orgoglio maschilista e bianco. Con un linguaggio diretto e grossolano, Bolsonaro & Co. hanno inanellato dichiarazioni razziste e sprezzanti (salvo successive smentite o ridimensionamenti), facendo appello ad un ideale di purificazione sociale e adeguamento delle minoranze alla volontà espressa dalla maggioranza.

Un ultimo ingrediente frequentemente utilizzato in questi mesi è stato lo scontentamento collettivo. Mascherando un programma politico assolutamente antipopolare, che difende le riforme sul lavoro ed il congelamento delle spese nell’educazione e salute pubblica per i prossimi venti anni e prevede la riduzione dei diritti pensionistici, il candidato militare ha fatto leva sui classici elementi che agglutinano rabbia e insoddisfazione: la disoccupazione, l’aumento crescente della violenza, il dramma della immigrazione venezuelana.

Offre soluzioni facili, inefficaci e pericolose a problemi complessi: armare la popolazione, aumentare il potere militare sul controllo dell’ordine sociale, saccheggiare le risorse naturali per rivitalizzare l’economia, eliminare gli avversari dalla scena politica (vedremo fino a che punto arriverà questa sua dichiarazione, rilasciata una settimana prima del voto di ballottaggio).

Si tratta di cammini che giocano al ribasso e smontano il fragile capitale di coscienza civile che si stava pian piano ricostruendo dopo la dittatura militare.
Il piatto amaro di una vittoria populista e arrogante è servito. Ancora non sappiamo fino a che punto avvelenerà ancor più la società brasiliana ed il futuro di questo paese.

giovedì 8 novembre 2018

E se sbagliamo strada?!

É come se fossimo su un’autostrada, ad alta velocità, davanti a un bivio. Compare quell’angoscia di non sbagliare strada, perché -una volta imboccato il cammino errato- non si può tornare indietro.
Sull’auto che corre, ci chiediamo sbigottiti: come abbiamo potuto arrivare così in fretta fino a questo punto?

Il Brasile è spaccato, le elezioni non sono occasione per disputare progetti di futuro o riflettere insieme sui cammini possibili. Prevale l’odio alla politica, il voto in molti casi è un grido di protesta, un inno da stadio, una bomba innescata per far saltare tutto.
Una deformazione somatica della società brasiliana porta molti a pensare con la pancia, guardare con occhi velati dalla paura, agire con il sangue iniettato di odio.
Da secoli la nostra società è dominata dalla divisione. Il Brasile è nato con l’imposizione coloniale di un progetto di saccheggio; da allora, per difendere i privilegi di pochi, continuano ad essere sacrificate molte persone.

Ma come è possibile che tanta gente appoggi ancora oggi questa logica sacrificale? Perché riusciamo poco a percorrere i cammini di educazione e liberazione che Paulo Freire ed il suo movimento hanno aperto?
Il dibattito politico e la formazione dell’opinione pubblica, oggi, sono fortemente influenzati dai circoli di comunicazione. Non si tratta più della comunicazione lineare che offre diverse letture della realtà e può metterle anche a confronto.
La comunicazione avviene sempre più per gruppi omogenei, tra persone che condividono le stesse idee e che hanno bisogno di sentirsi rassicurati da altri, che le convalidino e rafforzino. Circoli impermeabili, sempre più aggressivi, considerano l’altro un nemico. La campagna elettorale di molti candidati si è giocata così, ridotta ad una battaglia di meme e vignette su whatsapp.

In Brasile è stato coniato anche un nuovo termine: dalla post-verità delle fake news alla “auto-verità”: il contenuto non importa, è sufficiente l’atto del parlare. Gli avvenimenti, la verità, non importano. Il semplice fatto di manifestarsi con fermezza, gridare e denunciare, proporre soluzioni infattibili ma populiste è considerato come coraggioso, onesto, autentico. L’estetica ha preso il posto dell’etica.

Ma cosa ci dà speranza, allora? Molta gente che rompe il circolo virtuale e riprende la piazza come luogo di presenza, incontro, manifestazione a faccia aperta. I gruppi in cui ancora si fa lo sforzo di parlarsi guardandosi negli occhi, studiando un tema con rispetto, cercando di ascoltarsi reciprocamente.
 Le comunità cristiane di base in cui la fede si abbraccia alla storia, la Parola ispira la vita e da essa è illuminata. Le pastorali ed i movimenti sociali che continuano a credere che al di fuori dei poveri non c’è salvezza per la Chiesa e per il mondo, e rimangono coraggiosamente accanto a loro. Fanno del servizio agli esclusi una profezia anche per la politica.

Tra le immagini di Brasile che più vorrei ricordare, in queste settimane di angoscia, c’è quella di milioni di donne, a fine settembre: hanno occupato le strade e marciato di forma non violenta e creativa, in tante città del Brasile, per dire no al movimento fascista, razzista e misogino che si sta consolidando attorno al candidato militare. Non difendevano un partito, avevano molteplici appartenenze ed il coraggio di manifestare.

Solo la violenza può metterle a tacere, e purtroppo è ciò che è cominciato ad accadere in ottobre: persone aggredite, umiliate, anche uccise per aver affermato la sua critica all’ombra di dittatura che rischia di ristabilirsi nel paese.
Stiamo andando ad alta velocità incontro a un bivio. Se sbagliamo strada, non si può più tornare indietro.

Alle porte delle elezioni

Il Brasile si trova in un momento critico, dopo due anni di una gestione irresponsabile e antipopolare, dal giorno del golpe che ha scalzato dal potere la presidente Dilma Rousseff.
La situazione, però, è così instabile che qualsiasi cosa si scriva un giorno, poco dopo può essere totalmente mutata da nuovi fatti*.

Proprio mentre scriviamo, un attentato folle al candidato di estrema destra scombussola di nuovo la scena politica. Si tratta di un’azione isolata, di una persona irresponsabile. Ma è l’incarnazione di un’escalation di violenza e aggressione che si è impossessata della società brasiliana.
È molto difficile riflettere e dialogare in modo costruttivo, oggi, in Brasile. Qualsiasi affermazione è interpretata a partire dal campo di idee che i media ed una strutturata strategia di fake news hanno costruito nella testa e nella pancia di ciascuna persona.
Più di una volta, per esempio, amici sacerdoti, esemplari per il loro impegno sociale e la serietà di analisi, sono stati interrotti ed insultati durante la celebrazione liturgica, per il semplice fatto di cercare di offrire un’analisi della situazione politica che non aggradava gruppi fondamentalisti.

Da dove viene tanta violenza verbale e fisica, che è sfociata in questi mesi nell’assassinio della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco, negli spari che hanno ferito gravemente una delle persone accampate in protesta nonviolenta per la prigione dell’ex-presidente Lula, nella fucilata all’autobus di una carovana del Partito dei Lavoratori e nell’attentato conto il candidato Bolsonaro?
È una violenza strategicamente costruita giorno per giorno nella coscienza delle persone, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione controllati da gruppi economici estremamente influenti.
È un processo di decostruzione della politica, intesa come progettualità e partecipazione: non si può considerare nell’interesse del Brasile un progetto neoliberale così sfacciato da disfare in un colpo solo i diritti acquisiti dalle famiglie e dai lavoratori durante anni di dure rivendicazioni.
È uno smontaggio sistematico della memoria storica: non si può, in nome della corruzione (che è trasversale a tutti i partiti politici) e della critica alla gestione del Partito dei Lavoratori (che ha ragioni fondate) innescare e alimentare nelle relazioni un odio generico ed ideologico contro una sola persona o un solo partito.

Avendo seminato vento negli ultimi due anni, nel paese si sta raccogliendo ora la tempesta della violenza e dello spirito fascista, di cui probabilmente anche le forze golpiste hanno perso il controllo.
Il Brasile oggi è estremamente polarizzato. Il centrodestra è così frammentato da aver fatto spiccare un outsider aggressivo, volgare, misogino, razzista e molto vicino al potere militare.
A sinistra, apparentemente più unita, il Partito dei Lavoratori è ancora intrappolato nella difesa dell’ex presidente Lula. Il suo arresto, che gli impedisce di candidarsi, è stato criticato da importanti politici stranieri e perfino da una raccomandazione formale del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU.
L’appoggio popolare a Lula, malgrado imbavagliato in prigione, è cresciuto incredibilmente negli ultimi mesi. Ma il partito non ha preparato con sufficiente visibilità un possibile secondo nome, e non si sa quanto il voto a Lula sarà trasferibile ad una persona meno conosciuta.
Le elezioni non si risolveranno al centro, ma probabilmente in un secondo turno che metterà a confronto due blocchi di elettori, in un conflitto che non terminerà ad ottobre.

Ci aspetta un Brasile spaccato ed ancora imprevedibile nel suo futuro politico-economico e, forse, addirittura nella sua democrazia.

* Questo articolo, pubblicato sulla rivista Nigrizia di ottobre 2018, é stato scritto a inizio settembre.

sabato 8 settembre 2018

Non si uccide la profezia

Nei momenti più difficili del suo cammino, Laura passava spesso a trovarlo, al cimitero.
Le piaceva fermarsi a parlare con lui, raccontargli la sua vita e mettere nelle sue mani le sue scelte e prospettive.
Si riconosceva molto in p. Lele. Lui, missionario comboniano difensore dei popoli indigeni e delle famiglie senza terra in Brasile, ucciso nell’85 nello stato di Rondonia.
Lei, giovane alla fine dell’università, sognandosi missionaria “perché non posso trattenere tanta vita che ho ricevuto”.
Dopo vari anni lo ha incontrato di nuovo, questa volta sulla strada.
Lei, già consacrata alla missione, educatrice popolare in Amazzonia, impegnata contro le nuove schiavitù e lo sfruttamento delle donne.
Lui, presente nello Spirito, risorto nel cammino delle duemila persone che il 24 luglio si sono riunite a celebrare la sua morte, nel luogo esatto in cui gli hanno sparato.

Afflitto per la distruzione della foresta in tutta quella regione, il vescovo, uomo coi piedi per terra ed il cuore tra la gente, denunciava: “questa terra oggi è secca, disboscata, ma è fertile perché irrigata dal sangue dei martiri!”.
Le comunità cristiane marciavano con lui in processione, cantando e invocando il nome dei tanti, scomodi, che il potere del latifondo e delle industrie estrattive ha fatto eliminare.

L’anno scorso è stato il più violento a livello mondiale, per i difensori dei diritti umani e della natura. Il rapporto di Global Witness ha registrato il maggior numero di uccisioni, ed il Brasile vanta la tassa più alta, con 57 leaders popolari eliminati in conflitti socioambientali.
Negli ultimi trent’anni, in Rondonia, molte regioni forestali sono state trasformate in pascoli per allevamento bovino estensivo, oppure per monocultura della soia, che a sua volta viene esportata per alimentare le vacche in Europa. La carne ci costa cara, sia dal punto di vista dei diritti umani, che del riscaldamento globale!

Grandi dighe per la produzione di energia idroelettrica sono state costruite barrando il flusso del Rio Madeira, inondando vaste regioni ed espellendo dalle loro terre intere comunità.
L’alterazione del corso e del ritmo del fiume, unita all’intensità imprevedibile delle piogge stagionali, ha provocato nel 2014 l’inondazione fluviale più grave degli ultimi decenni: l’acqua è cresciuta fino a venti metri più del normale e per alcuni mesi ha invaso case e piantagioni, sloggiando migliaia di persone dai loro villaggi in riva al fiume.

Trent’anni prima, p. Lele forse prevedeva questo sviluppo nefasto. Diceva così: “Qui molta gente aveva terra, ma è stata venduta. Aveva casa, ed è stata distrutta. Aveva figli, e sono stati uccisi. (…) A queste persone ho già dato la mia risposta: un abbraccio”. “Nessuno qui fa rivendicazioni assurde. È assurdo chiedere cibo per la propria famiglia? O solo i potenti hanno figli che hanno fame?”
“Non approviamo la violenza, malgrado riceviamo violenza. Il padre che vi sta parlando ha ricevuto minacce di morte. Caro fratello, se la mia vita ti appartiene, ti apparterrà anche la mia morte”.

E così la vita e la morte di p. Lele appartengono a questa gente di Rondonia, che si ispira molto al suo nome, specialmente quando crescono le minacce ai loro territori: anche quando la Chiesa istituzionale non si posiziona con chiarezza dalla parte dei poveri, le comunità non si sentono abbandonate, perché questo testimone di resurrezione sta con loro!

Una chiesa più laica

Un vescovo della “vecchia guardia” ci raccontava che un giovane padre missionario, arrivato da poco nella sua diocesi nel nord del Brasile, non resistette più di un mese e subito sentì il bisogno di sfogarsi: “Qui non c’è posto per me. I laici fanno tutto…”. Per quanto il vescovo cercasse di parlargli di una chiesa ministeriale e lo invitasse ad inculturarsi, il padre tornava frequentemente a lamentarsi. “Arrivederci –concluse il vescovo-. Realmente questo non è il tuo posto”.
Sono passati parecchi anni, ma nuovamente la Chiesa del Brasile ha sentito la necessità di battere su questo tasto, ed ha convocato un anno intero di riflessione e conversione sul protagonismo di laici e laiche. Forse perché, invece di avanzare, la nostra Chiesa sta indietreggiando su questi temi.

In parallelo, in agosto, l’America Latina celebrerà 50 anni dalla Conferenza di Medellin.
Quello di Medellin è stato un messaggio forte per tutti gli “affamati e assetati di giustizia”. Ha posto la Chiesa in condizione di esodo, chiamandola a passare da un contesto di oppressione sociale, politica ed economica, verso una liberazione integrale della persona e della società.
L’incontro di tutti i vescovi latinoamericani, nel 1968, ha promosso le Comunità Ecclesiali di Base (CEBs), ha rilanciato i laici e laiche perché assumessero il loro ruolo “sacerdotale, profetico e regale” e ha invitato le chiese locali a formare Commissioni di Giustizia e Pace, perché questo impegno passasse da estemporaneo a strutturale dentro la Chiesa.
L’anno scorso, proprio a Medellin, Papa Francesco ha spiegato meglio: i discepoli missionari “sanno come guardare alla vita, senza miopie ereditarie; guardano con gli occhi ed il cuore di Gesù, e solo in seguito giudicano. Sono discepoli che rischiano, agiscono e si impegnano”.

Conosciamo molti di questi discepoli, uomini e donne semplici, che nelle comunità di base donano la vita e si giocano fino in fondo. Celebrano la Parola di Dio alla domenica, nelle comunità che un sacerdote non riesce a raggiungere; coordinano i consigli di comunità  e conducono la vita quotidiana della chiesa locale; visitano gli ammalati e portano loro l’Eucarestia.
Eppure, occorre avanzare di più. Laici e laiche hanno “il diritto ad avere doveri” nella Chiesa: il loro lavoro non è un semplice addendo complementare ai compiti del parroco; non sono collaboratori, ma protagonisti di azioni esclusive, che solo loro sanno e possono realizzare.
Già nella Conferenza di Puebla si diceva che laici e laiche sono il volto della Chiesa nel mondo, ma anche il volto del mondo nella Chiesa.

In vari casi, però, le malattie della Chiesa li hanno contagiati: vari laici si riconoscono nel clericalismo, anzi, lo alimentano, confermando una logica di dipendenza dalle decisioni e dalla “sacralità” della figura sacerdotale. Tutte le strutture gerarchiche, in un certo modo, trasmettono sicurezza, che è una delle dimensioni di cui apparentemente la società spaventata di oggi sente bisogno. La fuga nel clericalismo può soffocare la sfida di nuovi protagonismi e ministeri nella Chiesa.
Ma un nuovo volto della Chiesa è urgente e necessario. Lo stiamo dibattendo anche in vista del Sinodo Speciale per l’Amazzonia, il cui cammino è già iniziato.Ne riparleremo!

Tre giovani, uno spaccato del Brasile di oggi

Miguel è un giovane impegnato in una delle nostre parrocchie, “devoto” nelle sue pratiche religiose. Da alcuni mesi è un fan sfegatato di Bolsonaro, possibile candidato alle elezioni presidenziali. Fondamentalista e razzista, alleato dell’esercito e del potere economico dei grandi proprietari di terra, questo politico incita alla violenza, sostiene il diritto delle persone ad armarsi per difendere il loro patrimonio, cancella dalla memoria il dramma della dittatura militare, è stato denunciato per incitare alla pratica dello stupro, offendendo pubblicamente una collega deputata.

Anche Anderson è un giovane vicino a noi comboniani. Lo abbiamo incontrato a Curitiba, nell’accampamento dei movimenti sociali alle porte della prigione dove da più di un mese si trova agli arresti l’ex presidente Lula. Tutti i giorni una “liturgia laica” marca la solidarietà degli accampati a Lula, considerato un “prigioniero politico”: centinaia di persone gridano il buongiorno e la buonanotte all’ex presidente. Quotidianamente si realizzano attività culturali nella piazza occupata, con musica, dibattiti, riflessioni, interviste…

Jefferson è un giovane dirigente del sindacato. Dormiva nell’accampamento quando un uomo freddamente ha iniziato a sparare la sua rabbia fanatica dentro le tende. Ricoverato d’urgenza con una pallottola che gli ha attraversato il collo, Jefferson è salvo.
È morta, invece, con sette pallottole in corpo, la consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco, uccisa a raffiche insieme al suo autista Anderson. Marielle stava denunciando da tempo la violenza della polizia e dell’esercito nella citta del Cristo Redentore.

È uno spaccato del Brasile di oggi. È molto difficile per noi missionari annunciare il Vangelo e la profezia di Gesù, in un contesto in cui qualsiasi affermazione genera intolleranza, aggressione e violenza; la gente non è più capace di ascoltare.
L’analisi socio-politica si restringe a slogan faciloni, dichiarazioni stereotipate, cancellazione della memoria storica, anche dei fatti più recenti.

Non si può isolare l’arresto di Lula dalla rapida successione di eventi che hanno scalzato dal potere -senza elementi probatori comprovati- la presidente Dilma Rousseff. Il presidente illegittimo Michel Temer, che l’ha sostituita, ha inanellato una serie di riforme e decreti antipopolari che stanno pregiudicando fette sempre maggiori della popolazione di basso e medio reddito. Nel frattempo, l’alleanza di questo progetto radicalmente neoliberale con una fetta significativa del sistema giudiziario ha portato avanti processi penali selettivi, per strappare dal potere il Partito dei Lavoratori e, specialmente, il suo leader storico.

La sinistra brasiliana ha molta autocritica da fare, sia per il suo cedimento strutturale alla corruzione (che domina oggi trasversalmente tutte le forze politiche), sia per le alleanze di potere costruite negli ultimi anni, che hanno tradito i principi basici di un programma politico progressista e popolare.
Ciò non toglie, però, il diritto che tutti disputino idee e progetti politici attraverso le elezioni; Lula ha ragione quando dice che “non si possono arrestare idee e sogni”.

Non riusciamo ad immaginare gli sviluppi di questo pasticcio che sta compromettendo la stabilità democratica del Paese, la partecipazione popolare, il diritto di libera espressione ed anche il coraggio della Chiesa nel prendere posizione.
Quello che sentiamo sulla pelle, con dolore e rabbia, è che il Brasile sta diventando sempre più ingiusto, razzista ed escludente.

Un Forum Sociale di speranza e una Pasqua di persecuzione

Se ci leggi, è perché ti interessa guardare al mondo dall’osservatorio del Brasile. Grazie per aggiungere il nostro punto di vista al tuo: la complessità non si può interpretare isolandosi.

Il Forum Sociale Mondiale è nato qui ed è tornato in Brasile, in marzo, tentando ritrovare la sua identità, in un momento di crisi che coinvolge molti movimenti sociali.
Questo non è un tempo facile per le utopie, come quella storica del FSM: “Un mondo diverso è possibile”. Lo slogan dell’edizione attuale era “Resistere è creare, resistere è trasformare”. La semantica della resistenza la dice lunga sulla situazione attuale.

L’ultima volta del Forum in Brasile (Belém, 2009) c’erano cinque presidenti latino-americani: Lula, Fernando Lugo, Hugo Chaves, Evo Morales, Rafael Correa.
Sono passati meno di dieci anni, è incredibile la trasformazione storica del continente. A gravi errori politici del “Socialismo del secolo XXI” si somma la rivincita organizzata del capitale internazionale e la sua strategia di Lawfare. In buona parte del continente si impone così un modello economicamente neoliberale e aperto alle privatizzazioni e politicamente conservatore e repressivo, riducendo l’accesso pubblico ai diritti collettivi, aumentando la militarizzazione e la criminalizzazione dei difensori dei diritti umani.

Ma la società civile organizzata sente ancora un bisogno estremo di incontro, intercambio, immaginazione e costruzione di quelle che al FSM sono state chiamate “alternative sistemiche”. Abbiamo parlato di Buen Vivir, ecofemminismo, decrescita, diritti della Madre Terra, deglobalizzazione, beni comuni.
C’è un lavoro intenso e a volte invisibile per difendere e rilanciare modelli di vita locale, profondamente vincolati al territorio, intrecciarli tra loro immaginando nuove relazioni sociali. La sfida è mantenere forte la resistenza consolidando al tempo stesso spazi e diritti nella politica…

Il FSM può essere paragonato, in chiave laica, al lungo cammino di esodo del Popolo di Dio in cerca di libertà.
Pochi giorni dopo, abbiamo celebrato la Pasqua cristiana, quest’anno con un’intensità ed un dolore più forti, che amplificano l’indignazione e stimolano al dono incondizionale della vita.

Dovreste ricordare ir. Dorothy, uccisa nel 2005 in Anapu, nel Pará, strenua difensora dei diritti dei contadini, della riforma agraria e di modelli produttivi locali sostenibili.
Ecco, p. Amaro continua da anni, nella stessa città, questo sogno. Per mantenerlo vivo, è ovvio, non si può fuggire dal conflitto. Ad un gruppo organizzato di fazendeiros danno appetito le terre che lo Stato ha concesso alle famiglie organizzate che p. Amaro accompagna da anni.
Questi grandi proprietari hanno montato accuse calunniose e falsi testimoni contro il padre e sono riusciti a farlo arrestare, durante la settimana santa.
Due vescovi, assieme alla comunità locale, hanno celebrato l’inizio del Triduo Pasquale a fianco della prigione. Amaro, oltre quelle pareti, riusciva ad ascoltare.

Abbiamo pensato molto al parallelo tra Gesù ed i perseguitati politici di oggi. L’aggressione ai difensori dei diritti umani sta aumentando, nel contesto di uno Stato che favorisce l’impunità e gli interessi del grande capitale.

Pasqua è quel passo in più in difesa della gente, ripetuto giorno dopo giorno, scomodo per chi ha in mano le catene, ma inarrestabile, liberatore, già risorto anche se apparentemente bloccato in carcere!

domenica 1 aprile 2018

Accompagnateci al FSM!

Sunaya è indigena Warao, venezuelana, ha 24 anni e 4 figli. Il più piccolo è nato in Brasile, dove la mamma è immigrata, in fuga dalla fame e dalla violenza del suo paese. Nel delta dell’Orinoco, la sua regione, le imprese minerarie hanno avvelenato pesci ed animali. Ora Sunaya vive ai semafori di Manaus, mentre cerca un lavoro più degno.
La rete Iglesias y Minería, servizio ecumenico offerto a varie comunità latinoamericane, conosce bene questi ed altri “effetti collaterali del progresso” e dell’estrazione mineraria.

In un’altra regione dell’Amazzonia brasiliana, a Porto Velho, la comboniana sr. Chiara lavora intensamente nella rete “Un grido per la vita”. È un network religioso che si impegna da dieci anni nella prevenzione del traffico di esseri umani e nella difesa delle sue vittime. Opera in svariati campi, dalla prostituzione ad altre forme di sfruttamento sessuale, dal lavoro forzato alla schiavitù ed al traffico di organi.

Le donne sono le vittime più fragili di questo mondo sommerso; anche l’immigrazione femminile sta crescendo molto e raggiunge la maggioranza in alcuni flussi umani migranti.
Pure in Mozambico chi soffre di più per la concentrazione delle terre, accumulate dai grandi progetti multinazionali di esportazione, sono le donne. Chiedetelo a sr. Rita, comboniana che da anni lavora nella commissione Giustizia e Pace nel nord del Paese.

Cos’hanno in comune queste persone, immerse nelle sfide quotidiane della missione di Comboni a diverse latitudini, in cerca di rigenerazione dei popoli a cui sono state inviate?
La stessa ispirazione e passione, ed anche un appuntamento in Brasile, in questo mese di marzo, al Forum Sociale Mondiale di Salvador Bahia.
Chiara, Rita, Iglesias y Minería e vari altri comboniani dall’Africa, Europa e America (50 in tutto) si incontreranno per la settima volta, in occasione del FSM.
Tutto è cominciato con il Forum di Nairobi. Abbiamo pensato: “i movimenti sociali si riuniscono in un paese in cui noi comboniani siamo molto presenti ed inseriti nella società civile, è un’occasione d’oro per scambiare esperienze e prospettive di impegno!”. Con questa intuizione, siamo stati un po’ precursori dello spirito di Papa Francesco, che ha già incontrato tre volte i movimenti sociali, con dibattiti di estrema densità spirituale. Dopo Nairobi ci siamo ritrovati a Belém (Brasile), Dakar (Senegal), due volte a Tunisi e a Montreal (Canada).

Il FSM attraversa un momento critico; è un processo contagiato dalla routine degli eventi, da una certa burocratizzazione e dal protagonismo delle ONG al di sopra dei movimenti sociali. È criticato per un’apparente dispersione, poche azioni dirette e difficoltà di convergenze. Ma è uno spazio creativo che favorisce alleanze nuove e ispira forme di resistenza e organizzazione simili in contesti diversi.

La nostra Famiglia Comboniana si muoverà in questo contesto, presentando le iniziative in cui lavoriamo quotidianamente, contribuendo alla riflessione spirituale e teologica dei gruppi religiosi presenti, dando ragione della nostra speranza ed imparando nuovi percorsi di umanizzazione ed incontro delle culture.
Tra di noi, approfondiremo il tema del lavoro in rete e della promozione dei ministeri, per una Chiesa che offra sempre più spazio al protagonismo e alla competenza dei laici.
Accompagnateci!

La difesa della vita non fa rumore

Dio creò il mondo e le persone, cercando di farle diverse perché si sentissero uguali. Poi riposò, chiedendo ad uno dei suoi angeli che le distribuisse per il mondo.
Il gruppo che giunse alla porta del Brasile fu accolto da un guardiano, che educatamente separò la gente in categorie: “uomini bianchi, questa è la porta; voi, giovani afro, da questa parte; donne, specialmente se nere, laggiù…”.

L’esperienza quotidiana della violenza nel nostro paese potrebbe essere interpretata a partire da questo mito originario.
Descritto utopicamente come la terra della cordialità e dell’integrazione, il Brasile è invece sempre più intollerante; malgrado rappresenti circa il 3% della popolazione mondiale, risponde per il 13% degli omicidi di tutto il Pianeta. La media di persone uccise è 4 volte maggiore che negli Stati Uniti e 29 volte più alta che quella italiana. Un’epidemia che ci rende più violenti di molti paesi in guerra.

É mezzanotte di un sabato di fine gennaio. Un gruppo di 20 uomini arriva improvvisamente in una viuzza della periferia di Fortaleza; c’è un locale di festa e danza, pieno di gente, sparano ad altezza d’uomo, indiscriminatamente. C’è chi fugge dal tetto, chi si finge morto, chi cerca di saltare il muro del vicino; alcuni sono inseguiti e freddati alle spalle. Il bilancio di 14 morti e 9 feriti è il frutto dell’ennesimo scontro tra fazioni criminali organizzate a livello nazionale, disputando territorio.
È una violenza istituzionalizzata, spesso tollerata e fomentata dagli stessi organi di Stato, che si beneficiano di alleanze mafiose, specialmente nel traffico di droga.

Ma in periferia c’è anche la vita che resiste, celebra, spera, riflette e prega. Una volta ancora, quest’anno, iniziamo il cammino della Campagna della Fraternità. Chi segue questa rubrica deve ricordare di cosa si tratta: la chiesa brasiliana lancia, ogni quaresima, un tema di riflessione e dibattito a partire da piccoli nuclei di incontro biblico nei quartieri.
“Fraternità e superamento della violenza” è il tema di quest’anno. Approfondendo le cause, comprendiamo che oltre alla violenza diretta, esiste quella istituzionale e quella culturale. Scopriamo che nella Bibbia non si può mai dissociare Pace da Giustizia; ci appassionano i testi della Dottrina Sociale della Chiesa, che cerchiamo di comprendere sminuzzati per i nostri denti, non abituati a masticare molti testi.
Ci impegniamo per smascherare la violenza che circola attraverso i media con analisi superficiali, banalizzazione del male e la scomodità dei poveri, indicati sempre come capri espiatori. Cerchiamo di riconquistare spazio nella politica a partire dall’iniziativa locale, i consigli di quartiere, la rivendicazione dei diritti minimi…

Caio è un giovane cresciuto con i comboniani di Fortaleza e lavora con loro, da tempo, nel Centro di Difesa dei Diritti Umani. Sviluppa progetti di mediazione dei conflitti e gruppi di dialogo nelle scuole di periferia, chiamati “Circoli di Pace”. Promuove relazioni tra alunni, professori, funzionari e genitori: crede nella scuola come primo contesto per smontare la cultura della violenza. Come sempre, la difesa della vita non fa rumore, così come il Bambino nato di nascosto, in una grotta, pur essendo Principe di Pace.

Le mani giunte

Vi racconto la storia di Simara, per tornare a credere nella politica.
É una giovane signora che vive da trent’anni a São Paulo; nata nel nordest povero, si è aggiunta, adolescente, alla schiera dei migranti interni in questo paese continentale.
L’ho conosciuta in periferia quando ancora gli anni si contavano col mille e novecento.
Ci impegnavamo insieme nella difesa dei diritti di bambini e adolescenti con poche opportunità di vita, e nel movimento popolare per il diritto alla casa.

La periferia est di São Paulo è tra le più povere, disordinate e violente. La maggior parte delle famiglie vive in affitto, in favelas o quartieri con infrastruttura precaria e pochissimi spazi comunitari. Lei si impegnava perché la gente avesse una casa… e ne sognava una anche per sé!
L’ho incontrata di nuovo ieri sera: è stato difficile trovare un tavolino in un bar tranquillo, nel caotico formicolare della gente del suo quartiere. Abbiamo riassunto vent’anni di vita in poche ore di dialogo.

Da tempo Simara fa parte di un Mutirão. È il principio di organizzazione del Movimento in difesa dell’abitazione popolare. In alcuni casi occupano regioni abbandonate della periferia urbana, rivendicando la funzione sociale di queste terre perché si trasformino in spazi abitati dalle classi più povere, con dignità.
Nel caso di Simara, invece, il Movimento ha messo insieme 400 famiglie in cerca di casa propria e ha fatto con loro una scommessa: hanno raccolto soldi in parti uguali tra tutti, per riscattare un terreno sufficientemente grande per tutti. Lo hanno comprato e, con il titolo di proprietà in mano, hanno iniziato a far pressione sul Governo, per ottenere un finanziamento per l’abitazione popolare.

Abitualmente il Governo ed il Movimento stipulano accordi per risolvere il problema endemico della casa nella megalopoli di São Paulo: con denaro pubblico si finanziano materiali, professionisti e microimprese locali di costruzione civile. La gente, dalla sua parte, ci mette il lavoro volontario organizzato, tutti i fine settimana, durante anni.
La costruzione del nuovo quartiere di Simara prevede 8 palazzi con 400 appartamenti. La conducono con il metodo dell’autogestione: un’Associazione formale degli abitanti del futuro quartiere realizza assemblee quindicinali con la consulenza del Movimento di abitazione popolare, ingegneri, architetti e sociologi (perché Mutirão è anche costruzione delle relazioni interpersonali, delle regole di convivenza e di lavoro comunitario, del progetto di quartiere che il gruppo sogna).
Si organizzano in 16 squadre, responsabili per il controllo delle presenze della gente nelle assemblee e nel lavoro settimanale, la compra dei materiali, l’accompagnamento dei tecnici, i contratti con le microimprese, le attività ricreative con i bambini e adolescenti durante l’orario di lavoro dei genitori, ecc.

L’etimologia di Mutirão viene dalla lingua indigena Tupi: “mettere le mani giunte, lavorare insieme”.
Credo in questa “religione” delle mani giunte, che mostra speranza dal basso!
Immaginatevi la difficoltà di organizzare 400 famiglie per costruire insieme un intero quartiere. Eppure le case sono quasi pronte, e gli occhi di Simara ieri sera brillavano di orgoglio!

Possiamo pensare alla politica come la serie di negoziazioni con cui persone, con interessi tanto diversi e a volte antagonisti, possano costruire e dividere pacificamente uno stesso spazio.
Il Mutirão di Simara ci fa credere di nuovo nella politica.

domenica 7 gennaio 2018

Il Brasile non ricomincia

“José, che piacere rivederti! Allora, avete già seminato nelle terre attorno al villaggio?
Grazie a Dio, sì, padre. Se il cielo ci benedice, anche quest’anno avremo fagioli e manioca!”
Ricominciamo un nuovo anno. I cicli della vita si fermano, a gennaio, per riposare e farsi fecondare dalla pioggia. Il ritmo frenetico urbano rallenta un po’, preparandosi a riprendere in breve. Ricomincia anche il Brasile? Purtroppo no.

Dom Erwin Krautler, vescovo difensore dei popoli indigeni brasiliani, commenta che “questo golpe è sistemico”.
Da quando il presidente che consideriamo illegittimo ha scalzato il Governo eletto in 2014, sta avvenendo un attacco strutturale a tutte le dimensioni della vita nazionale: vengono modificate le leggi ambientali, le regole del lavoro e della previdenza sociale, i principi e gli stanziamenti pubblici per la salute e l’educazione. Si cerca di svendere agli interessi privati del grande capitale patrimoni pubblici, acqua, terra, riserve minerali e  fossili.
Le conseguenze cominciano a sentirsi, nel bilancio di 2017: più di quaranta milioni di lavoratori sopravvivono con meno di 250 euro di stipendio; abbiamo raggiunto la soglia di 13 milioni di disoccupati ed è aumentato molto il lavoro precario e informale. È tornata la fame e aumentano i debiti, la violenza, lo scoraggiamento.
Nella scena nazionale, brillano i sorrisi dei fantocci politici che con equilibrismo stanno riuscendo a mantenersi in piedi, sostenuti dagli enormi interessi di investimento internazionale.

Guardandoci indietro, osserviamo un ciclo che si assomiglia, in diverse parti del mondo.
Si è consolidata una disillusione globale riguardo alla rappresentazione politica. Il sociologo spagnolo Manuel Castells la definisce “totale decomposizione del sistema politico”.
In reazione, soprattutto nei primi anni del nostro decennio, si sono messi in moto nuovi movimenti di piazza, rivendicando in varie parti del mondo (ed anche in Brasile) dignità e democrazia. Ma ad essi sono mancati strumenti legittimi per imporre il cambiamento. E in buona parte si sono sgonfiati.
Così, si è affermato un progressivo senso di impotenza, che sfocia oggi nel disanimo, ritirandosi ognuno alla sua vita privata e virtualizzata, oppure in una ribellione disorganizzata e disperata, poco efficace per il cambiamento.

In Brasile ogni ansia di ricostruzione sta venendo canalizzata verso le elezioni del prossimo ottobre, con il rischio che si inghiottano passivamente nuove deleterie riforme anti-sociali nei prossimi nove mesi!
Per lo meno, ci sarà restituito un Governo frutto della volontà popolare (qualsiasi essa sia: si sa che nei momenti di crisi il rischio del populismo si innalza).
Ma resterà alta la probabilità, semplicemente, di ricominciare il ciclo descritto sopra. “Se, pur in paesi con caratteristiche diverse e specificità proprie, sorge lo stesso fenomeno, allora possiamo pensare come ipotesi che è il modello che sta crollando” – conclude Castells.

Ad ogni crisi corrisponde una rinascita. Ma non riusciamo ancora a vedere in quale direzione; cerchiamo con il cuore stretto nuove intuizioni.
Uno spunto ci viene dai popoli indigeni, eterni resistenti in questo lungo tempo coloniale a loro imposto. Una speranza viene dal ricominciare nei territori, rilocalizzare l’economia e la gestione politica, riscoprire le radici per difendere il futuro degli spazi collettivi.
È una piccola semente che, in questo inverno, possiamo seminare. Che la pioggia e il cielo la benedicano!