domenica 21 dicembre 2014

Natale: fare casa tra la gente

Nell’ultima domenica prima di Natale, la Parola di Dio ci ha posto di fronte ad un contrasto.
Il re Davide decide di costruire una casa per il Signore. Immagina un tempio sfarzoso, segno dell’autoritá di Dio e del re, nella capitale del potere religioso e politico, Gerusalemme (il suo successore Salomone concretizzerá pochi anni dopo questo progetto). La reazione del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe è forte: chi sei tu per costruire una casa a me?

Nel Vangelo, il progetto si inverte: è Dio che chiede il permesso ad una giovane ragazza della periferia galilea, di “fare casa” nel cuore dell’umanitá, attraverso di lei.

Se guardo indietro, a questo intenso anno di cammino missionario nel nord del Brasile, vedo questi due estremi nella nostra vita comboniana.

In molte situazioni ci stiamo impegnando per “costruire una casa” al Signore e alla gente.
Il progetto di “reassentamento” del quartiere di Piquiá de Baixo, in fuga dall’inquinamento, continua intensamente, anche se a passi molto piú lenti della vita che sfugge rapidamente dalle mani della gente che vive a fianco delle siderurgiche. Da sette anni siamo, quindi, impegnati in un progetto complesso, prolungato e di estrema responsabilitá.

Molto del nostro impegno missionario cerca di combattere le cause strutturali della violenza profonda sofferta nei nostri territori. I frutti sono la deforestazione, il lavoro schiavo, il saccheggio dei beni comuni, l’esodo rurale e la perdita del patrimonio culturale delle popolazioni indigene, dei discendenti afro, dei lavoratori del campo…
I semi sono l’imposizione di grandi progetti di esportazione delle materie prime o la fame di energia prodotta a basso costo per gli interessi del capitale industriale, sulla pelle delle popolazioni locali. O, ancora, il modello di consumo che sta ipnotizzando le nostre comunitá, provocando violenza, desiderio e competizione.

Per lavorare alla radice queste sfide e dissodare il duro terreno di una struttura sociale ed economica profondamente ingiusta, ci siamo impegnati molto, quest’anno, in altri progetti di ampio respiro: la rete Justiça nos Trilhos cresce nella sua organizzazione e, allo stesso tempo, nella sua capacitá di farsi prossima alle comunitá piú pregiudicate dalla duplicazione dell’immenso sistema di estrazione ed esportazione del minerale di ferro.

In parallelo, è nata durante quest’anno la Red Eclesial Panamazonica, un tessuto di diocesi, organismi ecclesiali e pastorali sociali che vogliono riorganizzare, articolare e potenziare l’impegno della chiesa in difesa della vita e dei territori amazzonici. Noi comboniani abbiamo l’onore e l’onere di parteciparvi con responsabilitá.

Inoltre, un lungo processo ‘di base’ è sfociato, a dicembre, nel secondo incontro “Iglesias y Minería”. Si sono riuniti quasi cento coordinatori laici e religiosi/e impegnati in America Latina per far fronte alle gravi violazioni provocate dall’industria mineraria nel continente intero. Abbiamo definito linee di lavoro e di articolazione per i prossimi due anni, cercando di incidere sempre piú sulla linea pastorale dei nostri vescovi e le loro relative conferenze episcopali. La chiesa deve mantenersi fedele alla sua posizione profetica di denuncia e difesa della vita, con il coraggio di denunciare l’assurdo di un sistema che massimizza i profitti e distrugge le culture, le comunitá, l’ambiente e le prospettive di futuro.

Insomma, stiamo costruendo molte “case” che speriamo siano gradite al Signore e in cui desideriamo molto che lui venga ad abitare. Anche i comboniani in Brasile hanno da poco unificato le due provincie, ed ora sono un unico gruppo di piú di ottanta missionari presenti in diversi territori, con molte sfide differenti da affrontare e con la necessitá di definire un progetto comune efficace e profetico.
Vieni, Signore Gesú: vieni ad ispirare con il tuo Spirito tutti questi spazi in cui, sinceramente e senza le pretese del re Salomone, speriamo che tu “ti senta in casa”!

Ma la Parola ci provoca: non è ancora questo il cuore della missione. Non ha senso costruire spazi in cui “giustizia e pace si abbracceranno”, se non dedichiamo tempo e attenzione ai semi di vita che Dio stesso, prima di noi, coltiva nelle piccole cose di ogni giorno.

Quest’anno mi ha provocato molto, in questo senso.
Le responsabilitá e le diverse richieste mi allontanano sempre piú dalla vita quotidiana della comunitá missionaria di Piquiá. 
Devo ringraziare, quindi, la testimonianza silenziosa e fedele di pe. Angelo, la tenacia di fr. Antonio nell’affrontare le contraddizioni quotidiane della nostra cittá, l’immersione rapida e attenta alle persone del nuovo arrivato p. Massimo, la dedizione pastorale e la testimonianza di famiglia di Valentina e Marco (che hanno scelto di far nascere qui la nuova vita che aspettano!), la competenza e l’amicizia di João Carlos e Dida, l’altra coppia di laici missionari in Açailândia, il companheirismo di Danilo, avvocato popolare che da quasi cinque anni lavora insieme a noi.
Lo spirito di famiglia comboniana, che unisce religiosi, laici e laiche, come Comboni giá faceva 150 anni fa, è forse uno dei piccoli grembi in cui Dio stesso chiede il permesso di nascere.

Altri piccoli grembi sono gli incontri quotidiani, il lavoro comunitário e volontario insieme alle famiglie delle diverse comunitá, l’accompagnamento silenzioso e impotente di una nostra catechista malata terminale… insomma: il Dio delle piccole cose, che quest’anno ha bussato alla mia porta “sfrondandomi e potandomi” per non dimenticare che, piú importante di tutte le strutture, è l’umanitá, il rispetto e l’amicizia.

“Il Signore ti annuncia che ti fará una casa”, dice il profeta al re Davide. Credo che la sintesi sia questa: sentirci in casa, con il Dio della Vita e con amici in cammino con noi.
Sia che siamo impegnati in grandi progetti o che riusciamo a contemplare il Dio delle piccole cose, la nostra vocazione missionaria è felice perché ci sentiamo in casa e perché stiamo curando la casa delle relazioni tra noi e con la creazione intera.


Che in questo Natale anche il Signore si senta in casa con ciascuno di noi, sinceramente impegnato perché tutto abbia vita, e vita in abbondanza.

mercoledì 3 settembre 2014

Sotto il tappeto della Coppa del Mondo

Articolo pubblicato in Nigrizia - settembre 14
Quarantatre milioni di brasiliani incollati alla televisione. È l’apertura della Coppa del Mondo. Nella celebrazione iniziale, entrano un ragazzino bianco, un’adolescente afrobrasiliana ed un indigena Guaraní di 13 anni. Al gesto classico, ormai banale, che libera una colomba bianca, segue una sorpresa: il giovane Guaraní sfodera una fascia nascosta sotto la maglietta, con la parola “Demarcação”, rivendicando il riconoscimento delle terre indigene in Brasile.

La TV, é chiaro, nasconde la scena. I Guarani sono uno dei duecento popoli nascosti in Brasile. Sono il popolo indigena con la piú alta tassa di suicidi al mondo, la maggior parte delle vittime ha tra i 15 ed i 30 anni: “Non c’è futuro, non c’è rispetto, non c’è lavoro, e non ci sono terre dove possiamo piantare i nostri raccolti e vivere” - dice un uomo guarani. I giovani “scelgono di morire perché, in realtà, sono già morti dentro”. Survival International, in occasione della Coppa del Mondo FIFA, ha denunciato “Il lato oscuro del Brasile” con una pagina ricca di approfondimenti sul suo sito.

Nello stesso giorno, a Belo Horizonte, l’afrodiscendente Rômulo Félix è trascinato a forza dalla polizia militare, che lo striscia e lo scalcia perché, durante le manifestazioni di protesta contro la Coppa, stava difendendo una giornalista. Rômulo vive sulla strada; come lui, nei mesi prima della Coppa, centinaia di persone hanno sofferto le conseguenze di una vera e propria “operazione di pulizia urbana”, che ha concentrato i senzatetto in dormitori “strapieni, con installazioni precarie e mancanza di sicurezza”. Lo denuncia il Centro Nazionale dei Diritti Umani delle Persone di Strada.

Il 25 giugno, um bambino di tre anni chiamato Luiz Felipe viene ucciso da un proiettile vagante che lo colpisce alla testa di notte, mentre dormiva in casa. In quel momento, il 41° Battaglione Militare della Polizia stava facendo un’incursione nella sua favela. Era il giorno in cui, in Italia, tutti inveivano per la sconfitta contro l’Uruguay.

Tre brevi storie ci portano alla domanda chiave del nostro articolo: chi ha vinto, in questa Coppa del Mondo?
La presidente Dilma Rousseff, dopo la finale, commentava: “In questi giorni abbiamo vissuto una festa fantastica. Il popolo brasiliano, il governo federale, gli stati ed i municipi delle 12 cittá sedi dei giochi hanno garantito una delle feste piú belle del mondo”.
E piú ricche. Nel bilancio del governo si calcola un milione di turisti stranieri (il 95% di loro ha detto di voler tornare in Brasile) e tre milioni di turisti nazionali. La FIFA ha avuto entrate corrispondenti a 6,6 miliardi di dollari.
“Venduta come un progetto in cui ‘tutti vinceranno’, in realtá la Coppa è un processo in cui alcuni hanno perso tutto, perché altri guadagnassero molto” – commenta il professor Rodrigo Guimarães, della Cattolica di Rio de Janeiro. Una delle lezioni di questa storia è che i grandi eventi sono un’ottima opportunitá per chi li promuove e per le celebritá che vi gravitano attorno, ma non necessariamente per chi li riceve.
E allora, dicono in molti, la loro approvazione sia sottoposta, prima, ad una consulta popolare.

Chi paga il conto?
La FIFA è la maggior istituzione transnazionale del Pianeta, con 209 paesi membri, piú dei 193 che aderiscono all’ONU. Le regole del mondiale letteralmente impediscono, per legge, che la FIFA perda soldi con questo evento. “L’affare d’oro è vendere un ‘pacchetto di stato d’eccezione’ ai paesi interessati ad attrarre investimenti”, ricorda il professor Rodrigo.
Ma per le 250 mila persone che sono state o ancora sono minacciate di espulsione dalle loro case, per i famigliari e gli amici dei lavoratori morti nella costruzione dei nuovi stadi, per i lavoratori sfruttati in condizioni perverse, per i senzatetto vittime delle operazioni di igienizzazione delle cittá, il Mondiale è stato catastrofico. Chi ne pagherá il conto?

Il Brasile é arrivato quarto in classifica, ma sale al terzo posto al mondo (dopo Nigeria e Cina) quando si tratta delle nazioni con il maggior traffico di persone. Non a caso, la Chiesa brasiliana ha scelto questo tema di studio e di azione per la sua “Campagna della Fraternitá 2014” in tutte le comunitá cattoliche del Paese.
Lo sfruttamento sessuale è la forma piú comune (79%) di traffico umano al mondo. Due terzi sono donne, 13% bambini e adolescenti. In Brasile esistono 241 rotte per questo traffico, piú di metá delle quali è internazionale.
Un reportage di Agência Pública ha intervistato uno straniero arrestato per sfruttamento sessuale: “Io non sto trafficando nessuno. Ho il documento della mamma di questa ragazzina. Guardate dove abitava, e guardate com’è ora la loro casa, dopo che le ho aiutate. E voi, dov’eravate?”.
Il 17,6% degli adolescenti brasiliani vive nella miseria, ha denunciato Unicef nel 2011. Ogni giorno 165 bambini e adolescenti sono vittime di abusi sessuali in Brasile. Dati che sono aumentati negli ultimi tre anni, a causa dei grandi cantieri di costruzione degli stadi, prima, e del turismo sessuale, durante l’evento.
A Fortaleza si è calcolato l’aumento del 163% dei casi di sfruttamento sessuale attorno allo stadio Castelão.
I poveri ed i piccoli, quasi automaticamente, sono i piú esposti in occasione dei grandi eventi e sono costretti ad integrarsi e adattarsi ad essi, nelle poche maniere che sono loro permesse.

La Coppa del Mondo è il simbolo estremo della grandiositá e delle contraddizioni di questo modello di sviluppo. In Brasile ne esistono molti esempi: enormi progetti di infrastruttura, vastissime distese di monocultura e agrobusinness, dighe e centrali idroelettriche che disboscano e allagano immensi territori amazzonici, le maggiori miniere a cielo aperto del mondo. Ne sono vittima le popolazioni piú fragili: senza fissa dimora, favelados e abitanti delle violente e caotiche periferie urbane, contadini o pescatori in piccola scala, afrodiscendenti, popolazioni indigene.
Anche in questo caso, ai piú deboli non si lasciano alternative e l’unica possibilitá che resta, apparentemente, è l’adattamento ai grandi progetti, o meglio, ai progetti dei grandi.

Se facessimo una radiografia al Brasile dei Mondiali, vedremmo che sotto il verde e oro della bandiera si nasconde una nazione con una serie di domande sociali represse: la distribuzione della ricchezza ancora estremamente diseguale, la negazione del diritto alla casa e alla terra per tutti, violente aggressioni ambientali, lo sterminio della gioventú nera e povera, la bassa qualitá dei servizi pubblici, la corruzione politica e la precarietá strutturale del sistema di educazione.
“Malgrado negli ultimi dieci anni siano stati dati passi significativi in alcune di queste aree, esiste ancora un malessere sociale molto ampio, profondo ed antico”, ricorda il professor Guimarães.

Per questo, i Comitati Popolari anti-Coppa (vedi box a fondo articolo) e le proteste in molte cittá del Brasile che gridavano “La Coppa non si fará!” sono stati una continuitá logica delle grandi manifestazioni dell’anno precedente, che il 22 giugno 2013 hanno portato in strada piú di tre milioni di persone.
Não vai ter Copa!” significa, in questo senso, “non è questo il nostro gioco, non entriamo in campo come spettatori felici di una festa che non è la nostra”.

Repressione
Tutte le feste private, ad esempio del banchetto di Erode, hanno bisogno di un forte Stato di repressione per poter avvenire indisturbate.
Il parallelo è evidente, da un anno a questa parte, in Brasile. Durante tutto il mese di giugno 2013, milioni di persone nel Paese hanno organizzato manifestazioni di massa. La polizia militare ha risposto in modo molto violento e non controllato. Amnesty International denuncia: “È stato usato gas lacrimogeno indiscriminatamente, in un caso addirittura dentro un ospedale; sono stati sparati proiettili di gomma contro persone inoffensive, sono state ferite centinaia di persone, tra cui un fotografo che ha perso un occhio, altre centinaia sono state arrestate senza alcuna prova che dimostrasse il loro coinvolgimento in attivitá criminali”.
Con il timore che questo schema di violenza istituzionale si replicasse nella Coppa del Mondo, Amnesty ha pubblicato a inizio giugno 2014 un rapporto dal titolo significativo: “Usano la strategia del terrore”.
In agosto 2013 è stata approvata in Brasile la legge 12.850 sulle Organizzazioni Criminali. In seguito, varie persone che hanno preso parte a proteste pubbliche e manifestazioni sono state arrestate ed inquadrate nelle penalitá previste da questa legge.
Amnesty denuncia uso eccessivo della forza, arresti arbitrari, negazione del diritto ad un avvocato, impunitá dei poliziotti militari responsabili di violenza. “Il semplice fatto di portare con sé bandiere, striscioni, inchiostro o aceto (per ridurre gli effetti dei lacrimogeni) è stato considerato sufficiente per arrestare ed interrogare persone”.
Un manifesto pubblico firmato da 92 eminenti giuristi brasiliani ha ripudiato questo stato di violenza: “Fin da giugno dell’anno scorso, osserviamo che, invece di rispondere alle rivendicazioni con proposte che concretizzino i diritti sociali, gli agenti del Potere Pubblico hanno risposto con violenza e tentativi abusivi di criminalizzare gli attivisti”. Si giunge all’assurdo di sequestrare libri nelle case delle persone “sospette”, di investigare “persone che attuano in maniera organizzata con l’obiettivo di mettere in questione il sistema vigente” (senza che vi sia indicazione di qualsiasi fatto specifico che caratterizzi un crimine), arrestare illegalmente persone ed infiltrare agenti segreti nelle manifestazioni, senza alcun permesso dell’autoritá giuridica.

Fotos de Marcelo Cruz
In vari casi, e in modo sistematico, l’apparato statale si pone sempre piú come avversario della popolazione e la attacca pubblicamente. La Coppa del Mondo è la punta dell’iceberg di una tendenza progressiva: criminalizzare chiunque critichi gli obiettivi dei poteri pubblici e l’alleanza, sempre meno cammuffata, tra lo Stato ed il grande capitale internazionale che si sta impossessando dei chiamati “paesi in via di sviluppo”. Nei paesi vicini al Brasile, questo fenomeno appare con ancor maggior evidenza: il Perú ha legalizzato l’attacco pubblico ai cosiddetti “terroristi ambientali”, che sono gruppi, movimenti e persone che si oppongono all’installazione di grandi progetti e infrastrutture di saccheggio dei beni naturali, specialmente minerari. Nel 2007, il presidente dell’Equador Rafael Correa ha dichiarato, nella stessa linea: “È finita l’anarchia. Tutti coloro che si oppongono al progresso del Paese sono terroristi. Tutti quelli che faranno manifestazioni con blocchi stradali saranno puniti con tutto il rigore della legge. Non sono le comunitá che protestano, ma un piccolo gruppo di terroristi; gli ambientalisti romantici e gli ecologisti infantili sono coloro che vogliono destabilizzare il Governo”.

Nel 2012, un intervento durante il Consiglio di Diritti Umani dell’ONU raccomandava al Brasile l’estinzione della Polizia Militare. La desmilitarizzazione della polizia è un tema estremamente urgente nel Paese: le forze armate sono esercitate a combattere il nemico esterno e ad ucciderlo, quando necessario. La Polizia, al contrario, deve rispettare i diritti umani; inoltre, un poliziotto deve poter essere giudicato come qualsiasi altro cittadino, e non dalla Giustizia Militare. Molti degli stessi membri della Polizia Militare difendono questa tesi, giá che non hanno sufficienti diritti lavorativi e soffrono loro stessi violazioni di diritti umani.

Nella stessa logica, anche l’apparato di sicurezza ed i servizi segreti statali devono svincolarsi dagli interessi dei grandi poteri economici: sempre piú, i movimenti sociali in Brasile sono vittima di spionaggio, infiltrazioni e violazione della privacy da parte di questa alleanza spuria tra il potere pubblico e privato.

Il calcio e la politica
Notiamo, a partire da queste informazioni e riflessioni, quanto la Coppa sia stata vincolata al modello di Stato e di sviluppo che si vuole imporre al Paese.
Fortemente desiderati da parte del presidente Lula, i Mondiali in Brasile dovevano essere per la presidente Dilma un’opportunitá preziosa verso il suo secondo mandato, giá che il 2014 è anno elettorale.
Da quando sono iniziate le grandi proteste del 2013, peró, l’evento ha mostrato tutta la sua ambiguitá ed il suo pericolo: una prova del fuoco per il governo del Partito dei Lavoratori (il PT). La Coppa non iniziava piú in attacco, occorreva organizzarsi bene in difesa!
Si temeva molto la protesta popolare, il che spiega l’enorme dispiegamento di forze preventivamente messo in campo: 57 mila soldati e 45 mila poliziotti militari, 36 elicotteri e 170 strutture di sicurezza attorno agli stadi.
L’agenda sportiva era strettamente vincolata all’agenda politica. Il successo dell’una poteva garantire quello dell’altra… ma la sconfitta o il fallimento di questo grande evento sportivo sarebbe stato automaticamente un pugno nello stomaco per l’attuale dirigenza politica.
Possiamo dire che il governo brasiliano, malgrado tutte le contradizioni evidenziate, esce dalla Coppa avendo saputo difendersi bene politicamente. Chiusa questa pagina, apre immediatamente la nuova corsa verso le elezioni, in competizione con i partiti conservatori di opposizione che vogliono strappare al PT gli ultimi dodici anni di governo.

Per chi, peró, gioca la sua partita nel campo della vita dura di tutti i giorni, per i ‘piccoli’ di cui parlavamo piú sopra, resta chiaro che al di lá delle posizioni politiche dei diversi candidati alla presidenza continua indiscussa una profonda violenza strutturale.
È la violenza del modello di sviluppo fondato sul saccheggio delle risorse, sul razzismo e la discriminazione delle popolazioni tradizionali. La violenza della democrazia formale che non dialoga effettivamente con la societá civile organizzata e preserva un sistema di privilegi, corruzione ed impunitá.
C’era anche questo messaggio, probabilmente,  dietro ai fischi che hanno accolto la presidente Dilma nel giorno dell’inaugurazione della Coppa a São Paulo. Lula lo ha riconosciuto, ammettendo che il Governo non ha prestato abbastanza attenzione all’insoddisfazione di una larga fetta di popolazione.

In questo senso, il calcio ha influenzato profondamente il processo politico-elettorale. Le molte iniziative a margine del grande evento sportivo e mediatico (Coppa Ribelle, Coppa Popolare, Coppa dei Rifugiati, Coppa delle Ragazze, Mondiali di Calcio di Strada, Coppa Rivoluzionaria delle Donne, ecc), cosí come tutte le manifestazioni e proteste organizzate, hanno mostrato un volto critico e politicizzato della societá civile, che occorre coltivare incessantemente.

"É ancora presto per dire se i movimenti sociali che sono nati o si sono rafforzati in occasione dei Mondiali di calcio hanno avuto successo o no. Sicuramente hanno mostrato una “vitalitá embrionale” ed hanno mostrato la deficienza dei partiti politici attuali, incapaci di rappresentare vari settori della societá”, commenta il professore di etica e scienze politiche Roberto Romano (Universitá di Campinas).

Gli fa eco il sociologo Luiz Werneck (Cattolica di Rio de Janeiro), affermando: “La societá, oggi, è piú moderna del suo Stato, come si puó verificare dall’emergenza dei movimenti sociali che sbocciano da tutte le parti e si mantengono estranei alla politica istituzionalizzata”.

È su queste basi che il Brasile continua in costruzione. Il Comitato Popolare della Coppa, per esempio, afferma che la sua agenda ufficiale di azioni e proposte continuerá perlomeno fino a dicembre: “Le partite sono finite, ma la Coppa no: molte cose rimangono. Dobbiamo discutere il modello di cittá, le spese per la sicurezza pubblica e gli armamenti. I municipi si sono indebitati e questo conto resta aperto”.

Probabilmente nei prossimi mesi non occorreranno nuove grandiose proteste come quelle dell’anno scorso, ma azioni specifiche, con rivendicazioni precise. Resta viva la speranza che la societá civile si organizzi sempre piú e tessa reti interattive e esperienze di appoggio e solidarietá tra un movimento e l’altro.
È possibile anche che si protragga, in parallelo e almeno fino alle elezioni, la repressione militare da parte dello Stato, giá che non esistono forme di dialogo efficace e maturo con la societá civile.

Noi Missionari Comboniani continuiamo a fianco delle persone e dei segmenti della societá piú colpiti e infragiliti da questo modello di sviluppo e dall’attuale sistema di potere: camminiamo e r-esistiamo con le vittime del saccheggio delle risorse naturali, gli afrodiscendenti, gli abitanti delle periferie urbane, i detenuti, alcuni popoli indigeni.
Malgrado tutto, il pallone continua a piacerci, giochiamo con agonismo e facciamo il tifo assieme alla gente, cogliendo il gusto della festa, della passione condivisa, della vittoria sudata, nei campi di calcio e nella lotta di tutti i giorni!

--

Ascoltando i Comitati...
“Siamo tifosi che non hanno accesso agli stadi. Siamo lavoratori ambulanti che non possono lavorare. Siamo abitanti delle favelas e di occupazioni urbane sloggiati o minacciati di perdere le loro case. Siamo senza terra e senza tetto organizzati in lotta. Siamo donne, bambini e adolescenti, gays e transessuali e soffriamo tutte le forme di violenza e sfruttamento sessuale. Siamo poveri, neri, periferici, siamo sterminati alle porte della notte da uno Stato terrorista. Siamo gente di strada, persone con malattie mentali, professionisti del sesso, espulsi dai centri delle grandi cittá, internati obbligatoriamente o arrestati senza condanna. Siamo lavoratori nella costruzione civile, sfruttati e precarizzati nel nostro lavoro. Siamo anziani e persone con handicap, discriminati. Siamo cittadini le cui tasse sono sottratte dai bilanci pubblici per il beneficio privato di poche persone. Siamo giocatori e giocatrici di pallone, ma ci hanno rubato i nostri piccoli campi di calcio. Siamo amanti del calcio. Siamo 99% della popolazione. (…)
Da quando il Brasile è stato annunciato come sede della Coppa del Mondo 2014, la popolazione ha sofferto diversi impatti. Invece di celebrare lo sport piú popolare del Paese e offrire miglioramenti nella vita della gente delle cittá, la preparazione di questo mega-evento è stata occasione per aumentare, accelerare e intensificare le violazioni di diritti umani in tutta la cittá”.

(dal Manifesto “La Coppa per chi?”, del Comitato Popolare della Coppa in São Paulo)

domenica 6 luglio 2014

Brasile: tempo di vittoria e di sconfitta

Venerdí pomeriggio, giorno di Coppa, ai quarti di finale il Brasile attende la Colombia. 
La partita è tra un’ora, siamo in ritardo: noi missionari vogliamo seguirla assieme alle comunitá rurali con cui lavoriamo da anni, in un progetto di agroecologia nell’interno del municipio di Buriticupu. 

Buriticupu è una piccola cittá nello Stato brasiliano del Maranhão, con circa trentamila persone nel suo nucleo urbano ed altrettante sparse nella zona rurale. Le distanze ed i tempi sono “brasiliani”: infinite e difficilmente calcolabili a priori. La vita della gente è precaria, in questa terra considerata preamazzonica, nel senso che “prima qui c’era l’Amazzonia”.
Questa regione, in particolare, ha sofferto ed ancora soffre una enorme violenza strutturale: il conflitto tra fazendeiros e agricoltori senza terra ha marcato anni di sangue e di esecuzioni sommarie; politiche di interesse privato, indifferenza, abbandono e corruzione hanno ridotto migliaia di contadini alla sopravvivenza piú precaria; una logica permanente di saccheggio delle risorse naturali ha distrutto migliaia di ettari di foresta amazzonica spianandola a beneficio degli allevatori, che gestiscono la terra in modo estensivo e poco efficace.

La nostra auto avanza lungo la strada in terra battuta, piena di buchi e sassosa: gli amici della picola comunitá di Centro dos Farias ci attendono per la partita, tutti davanti ad un televisore scassato che deforma la voce del telecronista ed offre immagini oscillanti. Ma il viaggio è ancora lungo, sono 50 Km di vibrazioni e polvere, arriveremo giá con un gol marcato ed un clima piú rilassato: profumo di vittoria!

In auto, dialoghiamo sui due giorni di lavoro che ci attendono: l’orto comunitário che dobbiamo costruire e l’insetticida naturale che prepareremo insieme, macerando le foglie ed altri prodotti raccolti lungo la settimana dai nostri amici contadini, che stanno reimparando a riconoscere le proprietá vive che la madre natura ci offre. “Nessuno darebbe veleno a sua mamma” – insegna il corso di agroecologia a cui participiamo assieme a trenta famiglie di questa regione. Agroecologia è coltivare senza uso di veleno, senza applicare concimi chimici ed evitando la pratica pericolosissima dell’incendio per “ripulire” il terreno dopo il tempo delle piogge.
Agroecologia è uma cura omeopatica contro l’agrobusinness, è uno sforzo di vita di chi crede nelle piccole famiglie rurali, nella forza dei poveri quando si organizzano, nella feconditá della natura e nella sua protezione. È fede nel Dio della Vita, religione intesa come “prendersi cura” e continuare il cammino ininterrotto della Creazione, che il Signore ha affidato nelle nostre mani.

Il viaggio si fa meno pesante, dialogando su questo tra noi. Ma la violenza di queste regioni non si interrompe, e riappare concretamente per tre volte lungo la strada: un piccolo tratto del nostro percorso si sovrappone alla rotta dei camion del traffico clandestino di legname. Incrociamo in soli venti minuti tre carichi di alberi saccheggiati alla foresta. Ogni camion riesce a trasportare solo quattro enormi pezzi di tronco, dal diametro di piú di un metro ciascuno. 
Gli ultimi brandelli di foresta rimasta al Maranhão vengono rubati alla luce del sole e trasportati per circa 100 Km, fino alle segherie piú vicine. Buriticupu è una di queste cittá-ponte tra la foresta e la commercializzazione del legname. I saccheggiatori devono vedersela con le comunitá indigene che vivono della foresta: quando non riescono a rubare, giungono a negoziare ciascuno di questi enormi alberi a costi irrisori. Vendono alle segherie il carico dei loro camion ad un prezzo medio corrispondente a 500 dollari. E le segherie rivendono la legna in tavole ad un prezzo tre volte maggiore.

Chi denuncia questo traffico clandestino corre rischio di vita. Amici nostri hanno dovuto fuggire da questa regione perché si sono esposti troppo individualmente. L’anno scorso l’esercito nazionale ha stanziato circa 600 uomini che si sono installati in queste regioni per 5 mesi, tentando debellare questa piaga. Ma si è trattato di un esercizio puramente scenografico: appena i soldati hanno alzato le tende… tutto è tornato come prima.

Due a uno! Il Brasile ha sconfitto anche la Colombia, passiamo alle semifinali! 
È un’allegria rivedersi con gli amici di Centro dos Farias davanti alla televisione e lavorando insieme, tentando ricostruire la speranza dal basso. Mentre carichiamo i sacchi di letame o maceriamo le “magiche” foglie del nostro insetticida, molti si chiedono tra sé e sé, nel sudore sotto un sole equatoriale, chi vincerá la battaglia ben piú importante, in difesa della Vita, della foresta e delle piccole famiglie di agricoltori rurali.
Chissá se un giorno l’attenzione internazionale seguirá con altrettanto agonismo queste sfide… e qualcuno in piú verrá a rafforzare la nostra squadra missionaria: c’è in gioco la vita del Pianeta!

venerdì 3 gennaio 2014

Un presepio maranhense

Cosa succede attorno alla stalla dove è nato Gesú?
Il Vangelo di Matteo racconta di una visita importante: stranieri chiamati “Magi” vengono da lontano con ricchi doni.
Luca, al contrario, si riferisce a poveri pastori disprezzati dal popolo di Israele, uomini erranti e senza tetto, perché vivono con i loro animali. Sono i primi a visitare e riconoscere il Figlio di Dio.

Penso ai personaggi che hanno abitato il mio presepio maranhense. Assomigliano molto piú ai pastori che ai Magi.

Claudio è di nuovo in carcere. Dopo un lungo periodo in prigione, sembrava che si stesse recuperando, ci visitava frequentemente in casa e aveva fatto una grande amicizia con padre Pedro. Non riusciva a trovare lavoro, ma alla fine ce l’aveva fatta. Spesso camminava tenendo il suo piccolo figlio per mano, mi sembrava l’orgoglio ed il motivo della sua vita.
All’alba hanno trovato il corpo della sua compagna, abbandonato nell’erba al lato della strada. Claudio giura che è innocente; nessuno saprá mai cos’è successo, non è stata fatta nessuna indagine.
Mentre tutti aspettavamo la nascita nella notte brillante e rumorosa di Natale, lui e molti altri dietro le sbarre aspettano da tempo una decisione del giudice nella muffa puzzolente della cella.
La Pastorale Carceraria, come pastori anonimi e spesso senza potere, li visita e li riconosce come Figli di Dio. È il minimo da cui ricominciare.

Judite vive nel quilombo S. Rosa dos Pretos. Il marito l’ha abbandonata, ha due figli che studiano di sera, assieme agli adulti, perché –come nel caso di Gesú- non c’era posto per loro a scuola durante il giorno.
La piú piccola soffre di crisi asmatiche, ma Judite non puó prendersi cura di lei. Lavora come domestica nella casa di un’altra persona, nella cittá vicina. Dodici ore al giorno, da lunedí a sabato, con il “salario” vergognoso di trecento reais!
Come Maria e Giuseppe, Judite non avrebbe un agnello per presentare il figlio al tempio e dovrebbe accontentarsi di due piccole colombe. Ma sarebbe un’altra “vedova-di-marito-vivo” con tutto il diritto di importunare la giustizia per le condizioni in cui è costretta a vivere.

Tiago da tre anni è migrato da Itapecuru a Uberlândia, nello stato di Minas Gerais. Fa il muratore. È stato il primo a lasciare la cittá in cerca di lavoro, ma vari altri di Itapecuru l’hanno imitato.
In questa notte vicino al Natale Tiago è tornato: come tutti gli anni, vuole partecipare del Tambor de Mina nella Tenda de Nossa Senhora dos Navegantes.
Mãe Severina l’ha curato, prima di partire, ed ora non beve piú nemmeno una goccia di cachaça.
Come i Magi, in ringraziamento, riporta indietro ogni anno la sua vita, batte con forza nei tamburi che animano la danza degli encantados, vibra nel sogno di tornare definitivamente, perché sono qui le radici della sua vita.

Francesco ha passato l’anno scrivendo, perché in questo Natale l’umanitá aveva bisogno di una luce e di un canto nuovo. Ci ha lasciato in regalo la sua prima lettera, “L’allegria del Vangelo”, che desidera una chiesa povera per i poveri. Dice che i piccoli dovrebbero sentirsi “in casa” in ogni comunitá cristiana.

Chi abita le nostre case ed i nostri presepi, in questo ed in tutti i tempi di Natale?


PS: i nomi delle persone citate –eccetto l’ultimo- sono stati modificati in rispetto alla loro identitá.