venerdì 15 agosto 2008

Amazzonia: saccheggio e rivolta


In tanti stanno parlando e scrivendo sull’Amazzonia. Eppure siamo convinti che quello che abbiamo da dirvi ha ancora sapore, perché scritto da una terra che era Amazzonia e non lo è piú.
Siamo una comunitá missionaria comboniana che è venuta a cercare questi posti, sfidata dalla violenza silenziosa della devastazione, che parla con spazi immensi di niente: solo terra, terra, terra… per chi? Per quale progetto di sviluppo?

Vi scriviamo da Açailândia, in Maranhão, Brasile. Il nome della nostra cittá significa ‘la terra dell’açaí’, un frutto rosso sangue che è stato risucchiato via dal disboscamento.
La regione della nostra comunitá si chiamava Piquiá, era il nome di un’altro frutto; pochi anni fa l’hanno ribattezzato Pequiá, acronimo che sta per ‘Polo Petrol-Químico de Açailândia’.
Nei nomi, i destini delle cose.

Ora l’Amazzonia è lontana, anche per noi. Qui siamo quello che un giorno altri, alcune centinaia di kilometri piú all’interno, potrebbero diventare: deserto.
Deserto verde, certo: monoculture di brachiaria, che è l’erba dei pascoli immensi nei latifondi.
O di eucalipto, la ‘tenda verde’ per nascondere i forni di produzione del carbone. Usavano eucalipto per bonificare le paludi del Lazio; oggi in Maranhão abbiamo piantagioni di questa specie con centinaia di milioni (!) di alberi, cresciuti in suoli diserbati dal concime chimico: a breve le falde acquifere rischiano di esaurirsi, facendoci passare dal deserto verde alla steppa.

Açailândia secondo noi è un paradigma, una strofa della storia dello sviluppo in Brasile che bisogna imparare tutti a memoria… per evitare di ripeterla in altri racconti.
Non è per questo, peró, che la nostra cittá ha scelto il monumento-simbolo al suo ingresso: due enormi tronchi di alberi nativi, uno incassato nell’altro a formare un ‘tau’ che inneggia al passato delle 60 grandi segherie della zona. Memoria che lo sviluppo è passato di qui, secondo alcuni; monumento ai caduti, secondo altri. Per entrambi i gruppi, resta il fatto che le segherie hanno mangiato legna fino a dieci anni fa senza lasciare nemmeno le briciole; poi si sono tutte trasferite in Pará, piú a nord, lasciandoci solo… la segatura!
Cosí siamo una cittá-simbolo: orgoglio del Maranhão, secondo municipio piú ricco nel nostro Stato, modello efficace della crescita… ma anche luogo del delitto in cui è ancora possibile scovare le tracce di tutti i responsabili della devastazione.
Andiamo a conoscerli.

La Estrada de Ferro Carajás é una delle maggiori ferrovie mai costruite: 892 kilometri per collegare il piú ricco giacimento di ferro del mondo (Carajás) a uno dei principali porti commerciali dell’America Latina: São Luís. Ci passano quotidianamente 12 treni di 330 vagoni e 4 locomotive, carichi di minerali: nel solo 2005 il guadagno netto della ferrovia è stato di piú di 200 milioni di dollari.
Senza calcolare che oggi il minerale di ferro imbarca a São Luís al prezzo di 50 dollari alla tonnellata e viene riscaricato in Cina a 140 dollari. La stessa impresa che estrae il minerale si occupa del suo trasporto, occasione per altri guadagni massicci: state conoscendo la seconda compagnia mineraria del mondo, Vale do Rio Doce.
È questo colosso il grande responsabile di molti movimenti economici qui in Maranhão e nel Pará: una compagnia con 35 mila impiegati, 10 mila domande di lavoro nella sola zona dei giacimenti e una esternalizzazione ad altre aziende del 90% della mano d’opera locale.
Fa capo alla compagnia Vale do Rio Doce lo sfruttamento complessivo di questa fonte di ricchezza, nei suoi diversi passaggi: il ciclo di estrazione del minerale di ferro, la fusione nelle industrie siderurgiche locali senza nessun tipo di filtro né controllo ambientale, il consumo di carbone per alimentare gli altiforni, la devastazione della foresta vergine (fino a qualche anno fa) per ottenere carbone vegetale e le piantagioni massicce di eucalipto (da pochi anni) per sostituire la foresta che c’era prima.
Il “Programma Grande Carajas”, che ha innestato la ferrovia in queste terre per ‘portarvi lo sviluppo’, è stato fin dall’inizio pilotato dall’esterno: le imprese multinazionali durante il regime militare erano le uniche ad avere accesso ad informazioni privilegiate sulla ricchezza di queste terre.
Grandi oligopoli giapponesi e statunitensi, alleati ai generali di fine dittatura, si sono spartiti nel lontano 1978 la terra e le opportunitá. La compagnia Vale do Rio Doce all’inizio è stata anche pubblica, ma dal 1997 è tornata privato bottino degli investitori internazionali.
Cosí, ogni giorno, il nostro popolo maranhense affacciato alla finestra della sua baracca vede passarsi sotto il naso ricchezze enormi a cui non potrá avere il minimo accesso.

Lo sfruttamento minerario è solo una tappa della grande sequenza dello sviluppo: un anello di cui non si riconosce piú l’inizio. Latifondo, disboscamento per produrre, allevare o ricavare carbone, incendi costanti per ripulire grandi aree improduttive da destinare a pascoli, monocultura della soia e dell’eucalipto, industrie siderurgiche, camion…
La violenza ambientale è evidente e innegabile, tanto che la compagnia si è subito prodigata in operazioni mediatiche: poca preservazione ambientale e molta divulgazione della sua preoccupazione per la natura. Nel linguaggio degli affari, si chiama ‘greenwashing’: Una sorta di lavaggio in verde della coscienza davanti all’opinione pubblica. La compagnia ha annunciato che solo nel 2008 investirá 260 milioni di dollari per la preservazione dell’ambiente… eppure continua ad essere il gruppo minerario con piú multe ambientali in Brasile!
Per due volte ufficialmente Vale do Rio Doce ha dichiarato di non rifornire minerale di ferro alle industrie siderurgiche che ancora stessero tagliando legna direttamente dalla foresta. Ottima intenzione, ma giá questo bisogno di rinnovare pubblicamente l’impegno fa sospettare che la prima volta non si sia riusciti a mantenerlo…

C’è poca trasparenza nelle operazioni ambientali della compagnia. Quello che si riesce a vedere, sempre e comunque, sono le 14 industrie siderurgiche lungo la ferrovia, costruite a ridosso delle case della nostra gente (che era lí da almeno 20 anni prima). Ne stiamo aspettando altre due qui vicino e una grande acciaieria ad Açailândia, cittá che non ha ancora imparato a tenersi in piedi sotto il peso della produzione del ferro.
Il sistema di produzione energetica è pericolosamente inquinante (come nel caso di Barcarena, Pará, con una futura centrale a carbone importata da oltreoceano!) o devastante (come nel caso della grande diga di Tucuruí, che -lunga 11 km- ha coperto 2.430 km² di foresta e terre indigene).

Il dolore che questo sistema provoca non è solo per la foresta, ma per tutta la vita che vi si incontra:
le popolazioni indigene, ad esempio, sono spesso vittime inconsapevoli del progresso. Quasi sempre in un silenzio collettivo di complicità.
Ogni tanto, come nel luglio scorso, appaiono piccoli segni di riscatto: il popolo indigeno Krenak, in Minas Gerais, ha ottenuto un’indennizzazione di quasi 8 milioni di dollari per danni morali collettivi, grazie ad un’azione sostenuta dal Ministero Pubblico Federale.
Ad Ourilândia (Pará), in una delle zone di assentamentos dove vivono i piccoli produttori rurali, lo Stato brasiliano ha avuto il coraggio di processare la compagnia Vale do Rio Doce per illegalità nell’estrazione del nichel.
In maggio 2008 il Tribunale Permanente dei Popoli ha condannato la compagnia per crimini ambientali e violazione dei diritti dei lavoratori e dei diritti umani nella regione di Sepetiba (Rio de Janeiro).

È su queste sintonie che dobbiamo muoverci, per scrivere frammenti di storia che escano dagli spartiti di chi possiede gli strumenti di potere.
Oggi sembra che le uniche proposte redditizie siano il latifondo, la monocultura o l’agribusiness.
Ma chi conosce la ‘nostra’ gente crede ancora possibile, malgrado tutto, scommettere sulla produzione familiare, su progetti di piccole dimensioni: ben accompagnati, seguiti per un numero garantito di anni, magari finanziati proprio dalla multinazionale che qui in Brasile sta guadagnando di piú dalla terra e dalla foresta.

È con questo sogno che una rete di enti locali del nord del Brasile si sta stringendo sempre di piú: oltre a noi Missionari Comboniani, si sono riuniti Fórum Carajás, Sociedade Maranhense dos Direitos Humanos, Central Única dos Trabalhadores (Maranhão), Cáritas (Maranhão), Sindicato dos Ferroviários de Pará-Maranhão-Tocantins, Fórum Amazônia Oriental, Associação Juízes para a Democrazia e vari altri gruppi.
Da fine 2007 è nata una campagna, chiamata “Justiça nos Trilhos” (Sui binari della Giustizia) che sta articolando tutte le realtá coinvolte dalla compagnia Vale do Rio Doce nel corridoio di Carajás con altri gruppi di vari paesi del mondo che vivono le stesse contraddizioni.
Il primo appuntamento importante sará il Forum Sociale Mondiale (FSM), dove la campagna “Sui binari della Giustizia” presenterá un seminario internazionale con la partecipazione di Marina Silva, ex ministra dell’ambiente, vari attivisti locali della regione di Carajás e rappresentanti di movimenti di altre parti del mondo.
Fino al FSM (e molto oltre) la campagna continuerá a studiare l’impatto ambientale di Vale do Rio Doce e del modello di sviluppo oggi indiscusso qui in Brasile.

L’obiettivo della campagna è triplice: ottenere indennizzazioni per tutte le violazioni commesse da Vale do Rio Doce nel corridoio della ferrovia, forzare le operazioni di compensazione ambientale che sono state assunte come impegno, ristabilire un fondo di sviluppo della regione intera, a quota fissa annuale proporzionale ai guadagni della compagnia, gestito da un consorzio di municipi e movimenti sociali locali.
Il treno della campagna sta giá correndo, tanto lanciato quanto quelli della multinazionale.
Giá il fatto di essersi incontrati ‘sui binari’ in gruppi tanto diversi è un segno di speranza e organizzazione popolare, che forse puó ispirare anche altri movimenti, in altri luoghi.
A chi ci legge chiediamo solidarietà e collaborazione: abbiamo visto altre volte quanto le multinazionali siano sensibili all’opinione pubblica internazionale; saliamo insieme, dunque, sui binari della giustizia!

lunedì 4 agosto 2008


Questo é il mio corpo

Una frase ripetuta centinaia di volte.
Quando do la comunione alla gente delle nostre piccole comunità, dico loro “O corpo de Cristo” e la veritá piú profonda di questa frase è che loro sono il Corpo di Cristo!
Lo dico a me: Albino, Jocilene, Dirce, Asuério, Zélia, voi siete Corpo di Cristo, pezzettini di comunitá di cui mi voglio prendere cura!
Il pane spezzato insieme ci rende tutti uguali, capaci di riconoscere lo stesso Corpo nell’altro, bisognosi dei frammenti spezzati di umanitá che si sono persi lontano e che vanno ricondotti a casa, reimpastati nello stesso pane.

Questo è il mio Corpo…
Paloma, 14 anni bruciati dal crack e dalla prostituzione.
Ana Paula, che aspetta meno preoccupata di noi i risultati del test sull’AIDS… e ha solo 13 anni.
Maria Vitória, che è morta denutrita in questa cittá, dove circolano milioni in minerali e petrolio (cf. il post del 7 febbraio).
È un corpo spezzato, che dobbiamo curare, in un tempo in cui al contrario il culto del corpo è individuale: palestra, diete, profumi, plastiche, reimpianti…
Il Vangelo ci chiede di raccogliere tutti i pezzi di pane ‘avanzati’ (Mt 14,20) e di ricomporre continuamente il corpo della comunitá.
Vibrare in sintonia con ciascuno delle sue membra: “Il corpo non si compone di un membro solo, ma di molte membra. (…) Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui” (1 Cor 12)