domenica 9 maggio 2021

Il grido della foresta

Con il permesso degli spiriti creatori della terra. Con la preghiera solitaria, al suono del flauto, della sábia Maria Antonia, indigena collegata via internet dal cuore della foresta ecuadoriana.
Con le parole di appoggio e vicinanza di mons. Cob, un vescovo “con odore di Amazzonia”.
In un mosaico di voci e testimonianze dai nove paesi della Panamazzonia, si è aperto, a fine febbraio, l’evento “Il grido della foresta”.

La denuncia di Gregorio Mirabal, leader della COICA, è forte: “Ci sentiamo attaccati da una tempesta di pandemie: quella sanitaria, oggi ancor più grave a causa della variante di Manaus; l’estrattivismo che saccheggia le nostre terre; le crisi climatiche, che aumentano inondazioni, siccità, incendi e malattie nei nostri territori; il razzismo e l’autoritarismo, che minaccia i nostri leaders; il patriarcato, che pesa sulla dignità delle donne amazzoniche”.

Ma l’orgoglio e la speranza indigena sono più forti. Con connessioni online a volte un po’ precarie, il coordinamento della COICA è riuscito a mettere in piedi un evento di due giorni, online, che ha collegato i territori indigeni con alleati di tutto il mondo.

Più di ventimila persone hanno seguito le attività, che alternavano testimonianze locali a manifestazioni di appoggio esterne. Dall’India, la solidarietà è giunta dallo sciopero più imponente della storia, al quale hanno aderito 250 milioni di agricoltori, rivendicando dignità e rispetto del loro lavoro. L’Amazzonia si allea e appoggia, perché, senza radici nel territorio, i popoli perdono la loro identità.
Dall’Inghilterra, in piena notte, si sono collegati giovani accampati in un’azione diretta nonviolenta contro grandi progetti di infrastruttura e trasporto, approvati senza un sufficiente consenso delle popolazioni locali.

Antonio Nobre, climatologo e ricercatore brasiliano, ha lasciato il suo tributo alla sapienza ancestrale indigena: “La nostra scienza occidentale, dominante, è giunta a riconoscere valori e principi che gli indigeni conoscevano da tempo. Il vantaggio è che può renderli legittimi agli occhi della cultura tecnocratica, nel sistema di consumo di oggi”.
Adelaide, dal Belgio, ha solo 20 anni, ma tutta l’autorità morale per fare eco a queste riflessioni, rafforzando l’alleanza con i popoli originari. Fa parte del movimento Youth for Climate Movement, insieme a Greta Tunberg. Giovani che stanno dimostrando che possono spostare il corso della storia.

Mentre tutti gli invitati si alternano nel tessere vincoli con la causa indigena e della foresta, dall’Equador, Yindira e altre donne continuano a prendersi cura del “fuoco sacro” che hanno preparato in vista dell’evento. Sulle braci disposte in un grande circolo, spargono continuamente pietruzze di incenso, come a purificare, proteggere e profumare gli accordi che si stanno siglando tra i partecipanti.

Gregorio, come aveva aperto, prende l’ultima parola per chiudere l’incontro: “Noi non siamo i padroni della foresta, ma suoi figli. E ce ne prendiamo cura. Ma voi, cosa state facendo? Dormite? Svegliamoci! Non c’è tempo da perdere! Abbiamo bisogno di voi!”.

Chi decide il futuro del Pianeta?

In questo momento di crisi globale, su chi puntare per promuovere cambiamenti effettivi, solidi e permanenti?
Gregorio Mirabal, leader indigeno venezuelano, presidente della Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino Amazzonico (COICA), dichiara con forza: “Noi, popoli amazzonici, non siamo né i destinatari né gli operatori di scelte politiche sui nostri territori: siamo quelli che hanno preservato l'Amazzonia per secoli. La nostra voce e la nostra conoscenza devono guidare la politica pubblica e la scienza nella sua protezione, non il contrario.”

Papa Francesco ha ribadito questo messaggio nell’esortazione Querida Amazônia: “Il dialogo non deve limitarsi a privilegiare l'opzione preferenziale per la difesa dei poveri, degli emarginati e degli esclusi, ma deve anche rispettarli come protagonisti” (n. 27).

La grande politica, però, viaggia con altri principi e passa al di sopra di questi valori e rivendicazioni. Lo dimostra un possibile accordo, finora tessuto in segreto e senza nessuna trasparenza, tra gli Stati Uniti e il Brasile.
Il presidente Biden si è eletto con un progetto politico ambizioso, estremamente attuale e urgente, sul piano climatico: una drastica transizione ecologica, con riduzione consistente dei gas serra entro il 2030.

Il Climate Summit che ha convocato il 22 di aprile, giornata mondiale della Terra, è stata l’occasione per assumere formalmente questo impegno, in totale rottura con la linea negazionista del suo predecessore, Donald Trump. Inizia, così, un percorso di nuove possibili alleanze verso la COP26 di Glasgow, in novembre, che sarà una tappa decisiva nel tentativo di oltrepassare il minimo possibile la soglia di 1,5oC di riscaldamento globale, rispetto ai livelli preindustriali.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterrez, dichiara spesso che la crisi climatica è molto più grave e allarmante della stessa pandemia, che ci sta mettendo in ginocchio da più di un anno.
Ha quindi molto senso un impegno consistente delle nazioni contro i cambiamenti climatici, assumendo con coerenza il modello dell’ecologia integrale. 

Però, i possibili accordi tra Stati Uniti e Brasile in difesa dell’Amazzonia, come bioma chiave nella strategia di difesa della biodiversità e cattura di CO2, ci preoccupano molto, almeno per tre motivi:
-    vengono realizzati senza coinvolgere direttamente i popoli amazzonici, i primi con il diritto di manifestarsi e con conoscenze e stili di vita che indicano come convivere con la foresta senza distruggerla;
-    preparano una possibile cooperazione internazionale con un governo, in Brasile, apertamente anti-ambientale, anti-indigeno, anti-democratico, negazionista e opposto alle raccomandazioni scientifiche, la cui gestione della pandemia sta provocando sempre più morte e povertà;
-    possono essere uno stratagemma elegante per mascherare l’accesso all’Amazzonia di imprese straniere che riciclano le loro pratiche con operazioni di greenwashing, riproponendosi con il marchio -spesso contradditorio- di “capitalismo verde”.

Chi decide il futuro del Pianeta? Occorrono, senza dubbio, meccanismi urgenti di transizione, accordi formali tra le nazioni e strategie efficaci di cooperazione.
Ma non si tolga la voce e il protagonismo dei guardiani della vita, delle acque, della terra e della foresta, che da tempo ci insegnano qual è il cammino.