sabato 9 novembre 2019

Voci indigene al Sinodo

“Aiuto! Noi caciques di otto villaggi indigeni nella regione alta del fiume Tapajós piangiamo e imploriamo soccorso: fate qualcosa perché la nostra vita e la vita della natura non siano distrutte… Non ce la facciamo più. I cercatori d’oro stanno invadendo le nostre terre. Le stanno distruggendo e ci minacciano di morte”.
È il grido disperato dei capi indigeni Munduruku, nello stato brasiliano del Pará.

“Giorni fa abbiamo saputo, addirittura, che vogliono legalizzare l’estrazione d’oro nelle nostre terre. C’è gente che fa manifestazioni d’appoggio. Non ci rappresentano! Non hanno la nostra autorizzazione. Nel nostro regolamento abbiamo scritto che per qualsiasi decisione che riguarda il nostro popolo dobbiamo essere consultati!”

Anche frate Messias ce ne parla, molto preoccupato. Lui stesso, da anni impegnato in nome della Diocesi di Itaituba a fianco dei Munduruku, vivendo con loro nella regione, è dovuto ora fuggire ed isolarsi, per lo meno per un po’, a causa di minacce di morte.
Sono le voci soffocate che il Sinodo dell’Amazzonia cerca di amplificare. Uno dei risultati più importanti del processo sinodale è, senza dubbio, la visibilità di queste denunce, che rafforzano la resistenza dei popoli indigeni ed avvicinano ancor più la Chiesa a loro.
“Una Chiesa di presenza, molto più che di visite sporadiche”, diceva il Documento di Lavoro per l’Assemblea dei Vescovi.

Un altro esempio di prossimità della Chiesa è la missione Catrimani, nel cuore del popolo Yanomami. Si trova nello stato brasiliano di Roraima, il piú a nord, al confine con Venezuela.
Da 50 anni, missionari e missionarie della Consolata fanno esperienza di convivenza con i Yanomami senza l’annuncio esplicito del Vangelo: “Essere fratello e sorella dell’altro senza esigere che l’altro sia come me. Proclamare il Vangelo in silenzio, con il dialogo e la comunione di vita, facendo crescere la fraternità, la tenerezza e l’amicizia”, spiega dom Roque Paloschi, presidente del Consiglio Indigenista Missionario, che per dieci anni è stato vescovo della Diocesi di Roraima.

Il Documento di lavoro del Sinodo riscattava molto il valore del dialogo interculturale e interreligioso. Per quindici volte, in quel testo, si faceva riferimento alla storia e cultura coloniale installata nella società, e a volte anche nella Chiesa, in Amazzonia.
Dom Roque dice che nel dialogo con altre culture possiamo soffrire “la sindrome della matrioska: siamo uguali, ma tu sei più piccolo di me”.
La missione Catrimani, spiega il sacerdote della Consolata p. Corrado Dalmonego, “è risultato di un cercarsi gli uni gli altri, di una sorpresa reciproca: gli Yanomami si sorprendevano nel percepire la stranezza dei napëpë (non indigeni), così come questi cercavano di comprendere i loro interlocutori indigeni”. Quel che ha fatto la differenza è stata la presenza costante e stabile dei missionari, che superavano la tentazione delle visite periodiche per l’amministrazione dei sacramenti, e si distinguevano così dalle incursioni impreviste dei razziatori, che risalivano il fiume nell’epoca delle piogge per sottrarre i beni della foresta e della terra. Scegliere di stare insieme nutre relazioni di fiducia e di familiarità.

Dom Roque crede che svuotarsi, come ha fatto Gesù, è un atteggiamento fondamentale nell’incontro interculturale: “non si può insegnare senza allo stesso tempo imparare, né dare senza ricevere”, ragiona il vescovo.
“La Chiesa, quando si fa servitrice e samaritana, è già un sacramento di Gesù. La Parola di Dio non ha bisogno di soppiantare un’altra forma religiosa per farsi presente. Far scomparire una religione è rendere Dio meno presente nel mondo, è aumentare la nostra miopia divina”.



Foto: Guilherme Cavalli

martedì 24 settembre 2019

Critiche e appoggi al Sinodo dell'Amazzonia

Con alti stendardi colorati, giubbe e berretti che paiono militari, cornamuse e trombe, alcuni uomini in una delle capitali dell’Amazzonia brasiliana raccolgono firme contro il Sinodo.
Le loro caratteristiche bizzarre richiamano attenzione. Si dichiarano cattolici, fanno parte di un gruppo minoritario, molto attivo quando appoggiava la dittatura militare, che ha come missione “la difesa della civilizzazione cristiana”.
Non è questa l’opposizione che preoccupa.
Non possiamo però sottovalutare altri livelli di critica polemica: perché tante voci contro il Sinodo dell’Amazzonia?

Comincia il 6 ottobre l’Assemblea Sinodale, punto focale di un lungo processo che dovrà continuare negli anni seguenti, per applicare nei diversi contesti della Panamazzonia (Bolivia, Perù, Equador, Venezuela, Colombia, Guyana, Suriname, Guyana Francese, Brasile) le decisioni del discernimento realizzato.

È più che mai necessario approfondire e appoggiare il Sinodo, ascoltare a fondo la voce dello Spirito che, come ricorda l’enciclica Lumen Gentium, conferisce a tutto il Popolo di Dio l’infallibilità, quando si matura un consenso in materia di fede.
Vi sono consensi, però, che preoccupano alcune alte figure del clero, che si stanno esponendo in modo isolato, rivendicando un ruolo di “guardiani dell’ortodossia”.

La storia della Chiesa, soprattutto se riscattiamo le fonti bibliche e patristiche, ci parla di un’ecclesialità pluriforme. I teologi ricordano che, nei primordi del movimento di Gesù, le “chiese figlie” nascevano da “chiese madri”, diverse, senza che fossero scomunicate.
Incarnando il Regno di Dio, del quale sono sacramento nel loro contesto particolare, le differenze tra le chiese, invece di essere una minaccia all’unità, ci presentano un esercizio fecondo di unità delle diversità.

Fa specie che le principali critiche vengano da membri della Chiesa che non conoscono nemmeno un po’ l’Amazzonia. Pare che la preoccupazione non sia tanto riguardo alla vita delle persone in questa regione, al loro cammino di fede, al diritto all’Eucaristia e alla partecipazione cristiana: sembra piuttosto che il Sinodo sia un’occasione in più per consolidare la polemica di alcuni settori della gerarchia ecclesiale contro il magistero di papa Francesco.

Ma il Sinodo non cerca solo “nuovi cammini per la Chiesa”: si preoccupa anche dell’ecologia integrale, in un contesto grave di emergenza climatica e di devastazione dell’Amazzonia.
Il testo base per i dialoghi in sala sinodale, chiamato “Strumento di Lavoro”, è riuscito a sintetizzare con fedeltà e coraggio il grido di dolore e denuncia dei popoli e comunità che si sentono sempre più colpiti e minacciati da un modello di sviluppo predatorio.

Preoccupato per questa posizione profetica della Chiesa, che si fa voce delle vittime, il governo brasiliano ha già alzato la voce alcune volte. I militari commentano che “si stanno mischiando le cose, e il Sinodo sta deviando verso temi ambientali ed anche politici”.
I vescovi, a loro volta, ricordano la storia della Chiesa in Amazzonia: “quanto sangue, sudore e lacrime sono stati versati in difesa dei diritti umani e della dignità, specialmente dei più poveri ed esclusi della società, dei popoli originari e dell’ambiente, così tanto minacciati”.

Il Sinodo, insomma, sta sollevando molte polemiche. “Segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori”, come è stato detto a Maria.
Nelle sue mani, Regina dell’Amazzonia, poniamo il discernimento e le decisioni del Sinodo!

mercoledì 14 agosto 2019

Resistenza e profezia in Amazzonia

“Per noi i nomi sono importanti. La nostra città si chiama Açailândia, terra dell’açaì, il frutto amazzonico più carico di vita. La madre terra, come tutte le madri, ci dà nome.
Il nostro quartiere si chiama Piquiá: uno degli alberi maestosi della foresta, che non c’è piú”.
Sono alcuni tratti della condivisione di dona Tida, leader della comunità di Piquiá de Baixo, vittima degli impatti socioambientali dell’impresa mineraria Vale e delle siderurgiche, installate da più di trent’anni nell’Amazzonia orientale brasiliana, ricca di ferro e di acqua.

“Queste imprese hanno distrutto la nostra storia. Macinano la nostra memoria insieme alle scorie minerali, la offuscano dietro la cortina di fumo del loro inquinamento”, le fa eco Joselma, che per denunciare queste violazioni è già stata anche all’ONU, a Ginevra.

Le donne di Piquiá hanno scritto nella loro pelle un racconto che ritroviamo, molto simile, in tante altre parti dell’Amazzonia. La storia del conflitto di due modelli: quello del saccheggio, estrattivismo predatorio di imprese e potere pubblico che si impone dall’esterno, e quello della convivenza con il bioma, in difesa del territorio, che è lo spazio delle radici di una comunità.

I treni della Vale, che strappa minerale di ferro dalle viscere della foresta e lo esporta in Cina e in Europa, portano via la storia della gente, un granello alla volta, in 200 milioni di tonnellate all’anno.
Poco a poco, tutto diventa uguale, in queste intrusioni del “progresso” nel bioma amazzonico: il latifondo, la monocultura, l’allevamento, l’estrazione minerale, gli immensi corridoi di esportazione…

Il ciclo della natura è marcato dal seminare, attendere, cogliere, ringraziare e condividere. Il cammino della vita è fecondare, generare, educare, creare, curare e morire.
Ma lo schema capitalista è obbligatorio e sempre uguale. Ci domina, dentro e fuori dell’Amazzonia, lungo tutte le latitudini: saccheggiare, produrre, consumare, scartare.

Eppure, “Molto! Potete fare molto. Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete e già fate molto. Oso dire che il futuro dell’umanità si trova, in grande parte, nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzarvi e promuovere alternative creative (…) e nella vostra partecipazione come protagonisti nei grandi processi di cambiamento”.
Papa Francesco non si scoraggia. Nel 2° incontro mondiale con i movimenti popolari, ha sottolineato che la storia è scritta dai piccoli. Sono gli unici che riescono ad attraversare le righe, parlare altre lingue, immaginare grammatiche nuove, preservare la diversità creatrice. 

Piquiá lo conferma: da 14 anni sta resistendo, in una lotta contro giganti. La comunità non si è rassegnata all’alternativa diabolica tra il diritto al lavoro o alla salute. Ha detto no, si è infiltrata come un granello nell’ingranaggio dell’economia che uccide. Sta denunciando questa violenza a livello nazionale e internazionale, esige riparazione integrale. Ha conquistato il diritto ad un nuovo quartiere, per tutti, in una regione non più marcata dall’inquinamento. Sta costruendo una nuova storia, senza tagliare le sue radici.

Papa Francesco guarda all’Amazzonia non solo per preservarla, come uno degli ultimi baluardi di resistenza allo sterminio della biodiversità e al riscaldamento globale.
Soprattutto, intuisce che il nuovo è in gestazione nell’Amazzonia, nascosto nelle intuizioni dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali, nella relazione integrale delle loro società con la Madre Terra. Il Sinodo, forse, ci aiuterà a comprenderlo meglio.

Foto: Marcelo Cruz

Fratelli d'Italia

Nei mesi scorsi, nuove coincidenze hanno avvicinato il Brasile e l’Italia.
Il gesto del primo ministro Salvini, che ha baciato il rosario in Piazza Duomo a Milano, affidando al cuore immacolato di Maria la speranza di vittoria politica alle elezioni europee, ha avuto una risonanza internazionale.
Negli stessi giorni, e non per coincidenza, il Presidente della Repubblica Bolsonaro convocava nella sede presidenziale di Brasilia un atto formale di “Consacrazione del Brasile al Cuore Immacolato di Maria”.

Bolsonaro si dichiara cattolico, afferma aver frequentato la Chiesa Battista per dieci anni ed è stato battezzato da un pastore evangelico della chiesa Assemblea di Dio nel 2016, nelle acque del fiume Giordano.
La celebrazione di Brasilia è stata organizzata da un blocco di parlamentari cattolici, in un momento in cui occorreva manifestare appoggio al Presidente. Partecipava anche un vescovo brasiliano, dell’unica Amministrazione Apostolica Personale della Chiesa Cattolica esistente nel mondo, creata per i fedeli che si avvalgono della messa con rito tridentino.

Tanto il Brasile come l’Italia sono stati, negli ultimi mesi, campi sperimentali per nuove strategie di influenza socio-politica a partire dalla manipolazione della religione.
Il mentore di queste pratiche è il conosciuto Steve Bannon, ex-consigliere di Trump, che aveva montato in un monastero poco fuori Roma una “scuola di gladiatori”, per formare la “prossima generazione di leaders nazionalisti e populisti” in tutta Europa (sono espressioni sue, riportate in un articolo di The Independent).

L’estrema destra ha bisogno di consenso per sostenere le sue idee e giustificare proposte che, pur essendo populiste, non sempre sono popolari, perché mascherano gli interessi neoliberali di chi controlla il capitale finanziario.
In Brasile, questo movimento di seduzione della sensibilità religiosa popolare nel mondo cattolico avviene, addirittura, affrontando la stessa Conferenza dei Vescovi (CNBB). Ingigantisce lo spettro dell’ideologia di genere o della lotta al comunismo (!), fa appello a valori generici come la difesa della famiglia e dei buoni costumi, congrega i gruppi religiosi più conservatori e fanatici e denuncia la CNBB accusandola di posizionarsi politicamente, quando si esprime sulla grave situazione del Paese a partire dalla Dottrina Sociale della Chiesa.

Paradossalmente, il governo aggrega consenso religioso proclamandosi difensore della famiglia, ma ne pregiudica le condizioni minime di sussistenza, tagliando i programmi sociali per il diritto alla casa, mettendo in ginocchio l’educazione pubblica, compromettendo il diritto a pensioni giuste e dignitose, soprattutto per i più poveri.

“Dio al di sopra di tutti”, è lo slogan del Governo Bolsonaro, che afferma: “Lo Stato è laico, ma la gente no: tra cattolici ed evangelici, siamo quasi il 90%”.
E così, il Dio del Presidente e dei suo fedeli (il bolsonarismo oggi si sostiene perché ha assunto i tratti fanatici di una religione personale) assume il diritto di elevarsi al di sopra degli altri, per affermare la morale e gli interessi di chi si trova al potere.

sabato 8 giugno 2019

Elezioni al vertice della Conferenza Episcopale Brasiliana

In aprile di quest’anno, il Presidente della Repubblica del Brasile visitò Israele, consolidando una alleanza tra i due paesi, dai tratti politico-religiosi.
Nei pochi giorni della visita, alcuni fatti destarono la nostra indignazione.

Rilanciando la proposta di aumentare la vendita e distribuzione di armi in Brasile, in modo che i cittadini possano garantire privatamente la loro sicurezza, Bolsonaro si fece fotografare con una mitragliatrice in mano, mentre prendeva la mira.
Intervistato poche ore dopo aver visitato il Museo dell’Olocausto, affermò che senza dubbio il nazismo fu un movimento di sinistra (pochi giorni dopo, lo stesso Ministero degli Esteri israeliano considerò opportuno criticare e smentire questa presa di posizione).
In parallelo, dal Brasile, suo figlio Flavio, senatore, pubblicava in Twitter una risposta alle critiche di Hamas rivolte al papà, e letteralmente mandava gli integranti di questo partito a “farsi esplodere”.

Vatican News, intanto, pubblicava due articoli dando distacco alla visita del presidente, valorizzando l’accoglienza di Netanyahu e la dichiarazione d’amore di Bolsonaro per Israele. Stranamente, non apparivano le altre affermazioni polemiche.

Dal Brasile, una lettera al Vaticano, scritta con umiltà e spirito collaborativo, sollecitava chiarimenti. La risposta, rapida, chiariva la posizione: “L’intenzione era solo dare informazioni sul presidente del maggior paese cattolico del mondo, visitando la Terra Santa, nulla più”.
Il maggior paese cattolico del mondo, però, amplifica sempre più la distanza tra le sue politiche ed il messaggio evangelico. Il Governo approfitta dei simboli e dei ministri religiosi (cattolici e non) per legittimarsi e consolidare un appoggio popolare acritico.

In questo contesto, preoccupava molto la prospettiva delle elezioni nella Conferenza Episcopale Brasiliana, la CNBB.
Un passaggio estremamente delicato, in un tempo di grandi sfide, tra cui il Sinodo Speciale per l’Amazzonia, la necessaria riconfigurazione della pastorale in risposta alla crescente urbanizzazione e all’aumento delle manifestazioni di fede neopentecostali, la crisi etica della Chiesa, gli attacchi alla linea di Papa Francesco e alla stessa CNBB.

L’indicazione della nuova presidenza sembra non aver ceduto alle pressioni dei gruppi più conservatori, che propongono un quadro più allineato al governo brasiliano, un’alleanza tra lo Stato e la Chiesa e una sorta di “lobby del catechismo cattolico” nella disputa tra i partiti politici.

Gli occhi sono puntati soprattutto sul segretario generale della CNBB, vescovo ausiliare di Rio de Janeiro, finora molto allineato alle posizioni dell’arcivescovo don Orani Tempesta, che ha manifestato appoggio al presidente Bolsonaro. Saprà il segretario svincolarsi dall’influenza dell’arcivescovo? Oppure, obbedendo alla linea dei suoi elettori, rappresenterà un freno ed un filtro al resto della presidenza, che sta in forte sintonia con la linea di papa Francesco?

La prima nota ufficiale della CNBB appena dopo le elezioni lascia sperare bene: con profezia, coraggio e fermezza, denuncia “l’opzione per un liberalismo esacerbato e perverso, che disidrata lo Stato quasi al punto di eliminarlo”.
E ribadisce che il Vangelo, fonte di vita, di giustizia e di amore, sprona a non conformarsi al mondo così com’è, ma a trasformarlo.

Novos caminhos na Amazônia: os passos do Sínodo

“É ora di superare il clericalismo, uscire dai templi, verso le periferie esistenziali. Occorre una Chiesa ministeriale e profetica, inserita nella vita della gente, rispettando la diversità culturale e religiosa, la storia ed il modo di vita dei popoli amazzonici”.

Il Sinodo per l’Amazzonia, cominciato da più di un anno, sta risvegliando la speranza della gente, dalle comunità più isolate lungo i fiumi, fino alle periferie delle grandi città di questo bioma.
Sentirsi ascoltati, recuperare il protagonismo, potersi esprimere sulla Chiesa e sulle urgenze dell’Amazzonia, sedersi in circolo per discernere insieme, donne, uomini, preti, religiose, vescovi: sono tratti vivi della spiritualità e pratica sinodale che stiamo sperimentando in molteplici contesti dei 9 paesi della Panamazzonia.

Indipendentemente dai risultati dell’assemblea finale dei vescovi, prevista in Vaticano in ottobre, può attecchire nella Chiesa amazzonica questo spirito di ascolto e partecipazione, intensamente desiderato da Papa Francesco, primo passo perché l’incarnazione sia la principale metodologia missionaria.

“Voi, popoli originari, non siete mai stati tanto minacciati nei vostri territori. L’Amazzonia è una terra disputata. (…) Noi, che non abitiamo in queste terre, abbiamo bisogno della vostra sapienza e delle vostre conoscenze per poter entrare, senza distruggerlo, nel tesoro custodito da questa regione, facendo risuonare le parole del Signore a Mosè: «Togliti i sandali, perché questa è una terra sacra»”.

Con queste parole a Puerto Maldonado, in Peru, Papa Francesco ha aperto il Sinodo. In risposta, gli indigeni chiedono che la Chiesa assuma “una veemente difesa dei loro popoli”, riconoscendo gli errori del passato e smontando ogni eredità coloniale.

Così, la formazione offerta a seminaristi, missionari e laici deve riscattare gli elementi chiave delle culture locali, superando l’omogeneità di un modello religioso univoco.
I popoli indigeni insistono nel dialogo interreligioso, in sintonia con l’indicazione del Papa: “ogni cultura e cosmovisione che riceve il Vangelo arricchisce la Chiesa, con la visione di un nuovo lato del volto di Cristo”.

Il Sinodo sarà opportunità per riconoscere e valorizzare il protagonismo delle donne nella Chiesa amazzonica, identificando nuovi ministeri a servizio della Chiesa e della vita.
Le comunità cristiane amazzoniche, frequentemente, si sentono isolate e abbandonate. Non possono celebrare l’Eucaristia, se non nelle rare volte in cui un sacerdote le può raggiungere.

Nel lungo processo di ascolto sinodale, hanno proposto con rispetto e chiarezza la possibilità di ordinare sacerdoti uomini sposati, riconosciuti come punto di riferimento spirituale dalla comunità locale. Allo stesso modo, in considerazione delle culture locali, hanno suggerito il celibato opzionale per i ministri ordinati.

Il ministero delle donne diacono è una possibilità importante per la Chiesa amazzonica e una proposta che il Vaticano sta analizzando, con una Commissione nominata ancora nel 2016.

Un’altra grande sfida che si pone al Sinodo è ripensare la Chiesa e la vita nelle grandi città amazzoniche: cresce l’esodo dalla foresta verso i centri urbani, frequentemente frutto dell’espulsione delle comunità, che si ritrovano senza opportunità di sviluppare il loro modo di vita e sussistenza.
Nuovi cammini per la Chiesa e l’Ecologia Integrale in Amazzonia: percorriamoli!

Conflitos em Venezuela

Seicento indigeni Pemon attraversano di nascosto la frontiera tra Venezuela e Brasile.
Raggiungono i loro “parenti”, della stessa etnia che il confine di stato ha separato; si fermano con loro, in una terra indigena che non avrà condizioni di mantenere tutte queste famiglie.
Fuggono dal conflitto e dalla fame in cui il Venezuela si è (o è stato) ridotto.

Boa Vista e Manaus sono le prime capitali brasiliane in cui molti altri migranti e rifugiati venezuelani si installano, spesso di passaggio, accampati alla stazione degli autobus o negli strapieni centri di accoglienza urbani.
Stoccate alla frontiera, tonnellate di “aiuti umanitari” finanziati dagli USA perché il Brasile le donasse ai venezuelani, attendono di poter varcare il confine. Il governo Maduro non lo permette, e la frontiera è chiusa da varie settimane. 

La Croce Rossa Internazionale, la Caritas e la stessa ONU non hanno accettato di collaborare con questa modalità di aiuto puntuale, mediatico, strumento strategico di una possibile manipolazione politica: l’operazione non è organizzata con accordo previo tra le parti locali e non prevede il coordinamento di istituzioni internazionali neutre.
Per questo lo chiamiamo “umanitario”, tra virgolette: montato ad arte, nei giorni della maggior crisi venezuelana, per sbancare il presidente regolarmente eletto, in favore di un fantoccio costruito negli States e autoproclamatosi presidente. Utile per destabilizzare la regione venezuelana di frontiera, ma non così tanto disponibile per soccorrere i Pemon ed i migranti, una volta che hanno varcato il confine!

Il governo chavista non è esente di critiche e errori. Il principale, che pochi denunciano perché è una scelta di politica economica di quasi tutta l’America Latina, è l’estrattivismo portato all’estremo: buona parte dell’economia nazionale venezuelana dipende dal petrolio e dall’industria mineraria, compresa l’importazione di generi essenziali come alimenti e medicinali. 
Il paese non si è preoccupato di diversificare l’economia, avendo una delle riserve petrolifere più grandi del mondo. Per questo, le potenze-avvoltoio degli Stati Uniti, Russia e Cina sorvolano queste regioni, cercandone il controllo politico o, se necessario, militare.
È da condannare anche l’uso sproporzionato della forza militare venezuelana contro la popolazione.

Si condanna da sola, a nostro parere, l’ingerenza politica di molti paesi, riuniti nel Gruppo di Lima, che non riconoscono il governo di Maduro e considerano l’autoproclamato Guaidó alla stregua di un capo di stato. 
Questi paesi da una parte lanciano l’allarme della crisi umanitaria, ma dall’altra propongono di stringere ancor di più il cappio dell’embargo commerciale al Venezuela.

Si stima che le sanzioni ed il blocco economico degli USA, dal 2013 al 2017, abbiano causato la perdita di tre milioni di posti di lavoro e circa 350 miliardi di dollari. I venti milioni di aiuti promessi appaiono, così, più un’operazione puntuale di propaganda che una azione coordinata e continuativa di sostegno al paese.

L’instabilità è installata nella regione e durerà molto, apparentemente. 
Noi missionari cerchiamo di comprenderne le ragioni, appoggiare vie d’uscita rispettose della sovranità nazionale, soccorrere ed integrare i migranti che fuggono dalla violenza e dalla fame.
(articolo scritto in marzo 2019)

domenica 10 marzo 2019

Un lamento per Brumadinho


“É un male necessario”. “Per garantire lo sviluppo, a volte è inevitabile sottomettersi a qualche sacrificio”. “Grazie alle moderne tecnologie, possiamo sfruttare le risorse della Terra in modo pulito, sicuro e sostenibile”.


Siamo abituati ad ascoltare queste frasi sulla bocca di qualche politico o manager di impresa multinazionale, per aumentare l’espansione dell’estrazione mineraria.

Dalla parte opposta, Papa Francesco, nell’Enciclica Laudato Si, prende posizioni chiare e forti, soprattutto sull’urgenza di porre dei limiti.
Nel mezzo, ci sono le vittime.

Il crimine ambientale delle imprese minerarie Vale e BHP a Mariana, nel 2015, ha ucciso 19 persone e contaminato l’intero bacino del Rio Doce.
In gennaio 2019, la Vale ha sepolto nel fango dei suoi rifiuti tossici almeno 339 persone, a Brumadinho. Molti dei loro corpi non sono ancora stati ritrovati. Un altro bacino fluviale, quello del Rio Paraopebas e São Francisco, si sta contaminando in modo irreparabile.

Conoscevamo Brumadinho, abbiamo celebrato con la gente di quella comunità, con loro dialogavamo riguardo alle alternative per superare l’estrazione mineraria.
Da dieci anni, la Rete Internazionale delle Vittime di Vale denuncia che i danni ambientali, le morti e gli incidenti non sono errori puntuali, imprevisti inevitabili.
Sono l’aspetto strutturale degli investimenti minerari, che nel calcolo dei profitti inseriscono, sadicamente, i costi ambientali e sociali. Fanno parte del modello estrattivo, di questa competizione assurda che strappa le viscere della terra ad un ritmo sempre più rapido, per portarle sempre più lontano, tagliando i costi della prevenzione e della sicurezza per competere con un oligopolio sempre più ridotto e forte.

Uno dei vescovi di Belo Horizonte ha definito questo crimine “un omicidio collettivo”.
In queste settimane, la rete Iglesias y Minería (Chiese e Attività Minerarie) si trova là, a fianco della gente di Brumadinho, condividendo l’angoscia di chi ha perso familiari, terra o casa. Cerchiamo di offrire, attraverso la chiesa locale e le pastorali sociali, supporto, orientamento, organizzazione per tutte le rivendicazioni di cui le vittime hanno diritto.
Occorre vigilare perché l’alleanza storica tra lo Stato e le imprese estrattive non trasformi ancora una volta questo dramma in un “inciucio”, che mette qualche pezza agli strappi del sistema e lo rilancia, impune, fino alla prossima tragedia.

L’impunità genera l’arroganza di questo modello di produzione e consumo; è la causa principale del ripetersi di tante morti.
Sia lo Stato che la Vale sapevano del pericolo di Brumadinho. Si sono coperti a vicenda, lo hanno sottovalutato, probabilmente sfuggiranno di nuovo ai processi criminali.
Una multa si sconta in fretta dai margini di profitto a nove cifre dei colossi multinazionali.

Brumadinho ci insegna l’urgenza di un Trattato Vincolante che obblighi le imprese al rispetto dei Diritti Umani.
Smonta le frasi fatte che giustificano la necessità di estrarre finché tutto sarà esaurito.
Restituisce la voce alle comunità, che da tempo rivendicano il diritto alla decisione sul futuro dei loro territori.
Rinnova la sfida per pensare e costruire una transizione che ponga limiti all’estrattivismo, permettendo solo l’attività mineraria essenziale, promuovendo e investendo in alternative di produzione e convivenza con la Creazione.

Ripartiamo da Brumadinho lanciando alle chiese e ai gruppi religiosi l’appello a ritirare gli investimenti dall’industria mineraria. È anche questo un modo per sfuggire da ogni complicità!

lunedì 11 febbraio 2019

Colonizzazione, di nuovo?

“Quando sono arrivati, avevano la Bibbia, e noi la terra. Ci dissero: chiudete gli occhi e pregate. Quando li abbiamo aperti, noi avevamo la Bibbia e loro la terra”.
La critica dei popoli indigeni è forte. La Chiesa riconosce la sua complicità nella lunga storia di occupazione latinoamericana. La Conferenza di Puebla (1979) la definisce “un gigantesco processo di dominazioni”.
Nella sua visita in Chiapas, nel 2016, Papa Francesco ha chiesto perdono per “l'espropriazione e la contaminazione delle terre delle popolazioni indigene, perpetrate da persone intontite dal potere, dal denaro e dalle leggi di mercato".

Il Sinodo speciale per l’Amazzonia, in pieno corso, riconosce ancor oggi segni evidenti di un progetto colonizzatore: “I popoli originari amazzonici non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora. L’Amazzonia è una terra disputata su vari fronti”, ha denunciato Papa Francesco un anno fa, in Perú.

In Brasile, il nuovo governo sembra replicare una storia da cui, lentamente, ci stavamo scostando. Quando il fondamentalismo religioso si allea agli interessi del grande capitale, riappaiono i sintomi della colonizzazione ideologica e della riconquista dei territori.
Il nuovo Ministro della Sicurezza Istituzionale, generale dell’Esercito, ha affermato che conosce popoli indigeni che soffrono la fame, si trovano senza prospettive né medicine per curarsi. Ha dichiarato che gli indigeni vogliono essere cittadini, vogliono che i loro figli frequentino l’università. Quindi, non ha senso lasciarli isolati nelle loro terre.

Fa specie che debba essere un militare a comunicare alla nazione quali siano i desideri e progetti dei popoli indigeni, già che loro stessi si organizzano in associazioni e reti locali e nazionali, studiano la nostra cultura e le nostre leggi, hanno leaders formati in diritto, sociologia o agronomia e hanno eletto anche una deputata federale che li rappresenta.
Ma le affermazioni del generale si comprendono meglio quando si ascolta un altro brano della sua intervista: “Le demarcazioni di terra in Brasile sono state realizzate in regioni ricchissime di minerali”. Dietro la cortina di fumo dei (pochi) discorsi umanitari dell’equipe del Presidente, si nascondono consistenti interessi economici e si rivela una politica di cortissima visione.

Uno degli obiettivi del raffazzonato governo Bolsonaro, seppur diviso tra la vertente nazionalista ed una sfacciata sottomissione agli Stati Uniti, sembra essere la grande svendita del patrimonio brasiliano: dalle imprese pubbliche all’Amazzonia, dai giacimenti agli immensi riservatori sotterranei di acqua dolce.
E così, nel primo giorno del suo governo, il Presidente ha smontato le funzioni principali della Fondazione che si occupa dei popoli indigeni (FUNAI): identificare e demarcare i loro territori, controllare e proteggere le aree già demarcate. Compiti che vengono assunti dal Ministero dell’Agricoltura, dominato dai latifondiari, avversari storici degli indigeni.

Questi popoli, però, racchiudono in sé un’eredità ancestrale di resistenza e dignità. Papa Francesco diceva loro, in Perù: “Dalle vostre organizzazioni sorgono iniziative di speranza; (…) i popoli originari e le comunità sono guardiani della foresta, e le risorse prodotte grazie alla sua preservazione generano benefici per le vostre famiglie, per migliorare le vostre condizioni di vita, di salute ed educazione nelle vostre comunità”.
Prospettive molto diverse per guardare all’Amazzonia, che si preannuncia sempre più terra di conflitto.

Pace, alla maniera indigena

«É facile, per voi: vi riunite una volta all’anno per definire le priorità dell’anno seguente. Fate un elenco rapido di azioni, votate e scegliete ciò che la maggioranza impone».
È la critica di un membro del Consiglio Indigenista Missionario al modo in cui noi, “bianchi”, ci organizziamo nella Chiesa e nella società.
«Il popolo Krahô-Kanela, che seguo da tempo, quando sorge un conflitto convoca una grande assemblea. L’ultima è durata 15 ore di fila. Ciascuno si posiziona, dice la sua. C’è chi denuncia, chi chiede perdono, a volte si piange; si discute molto, si propongono alternative, non si chiude il dialogo finché non si è raggiunto un consenso. Ma, una volta ottenuto, nessun più si permette di contestarlo. È come una decisione sacra, perché consolidata e collettiva».

Il modo in cui un popolo si organizza dipende dalla sua cultura e dalla sua storia, ma influenza profondamente il suo futuro. Uno dei paradossi della nostra democrazia è che la società si costruisce sulla forza della maggioranza, ma le decisioni sono prese da poche persone. Nell’analisi della realtà e dei conflitti, riusciamo sempre meno ad ascoltarci e ci chiudiamo nel confronto tra gruppi di potere o convinzioni impermeabili.
Altre maniere di relazionarsi, impensabili per il nostro stile di vita, fanno da specchio alla nostra società e ci mettono in discussione. È uno dei motivi per cui Papa Francesco, nella Laudato Si e nella convocazione del Sinodo Speciale per l’Amazzonia, rimette al centro l’esperienza indigena, quasi come una rivelazione di percorsi di umanità che stiamo perdendo.

“Una buona politica è a servizio della pace”, è il titolo del messaggio di Francesco per la Giornata Mondiale della Pace 2019. Mons. Bregantini commenta che la politica deve essere rivalorizzata e non disprezzata, specialmente «in questo momento di sovranismo locale dove la mancanza di prospettive lunghe ci rende tutti miopi. (…) La pace nasce da relazioni serene, lungimiranti e intelligenti, basate sul pilastro della verità».

Fare politica alla maniera indigena, come stiamo cercando di spiegare, si basa sul principio che aiutando gli altri stiamo aiutando noi stessi. La politica lungimirante non si preoccupa solo di allontanare i problemi dalla propria terra, o di rafforzare la protezione dei confini di Stato, della proprietà e dei diritti privati.
Questa intuizione è sorprendentemente viva tra i popoli originari in Brasile. «Non staremo in pace se solo la nostra Terra Indigena è riconosciuta ufficialmente: è un diritto di tutti i nostri “parenti”» - commenta un leader Kanela.

Queste affermazioni si dimostrano nei fatti, come a luglio 2012, quando 20 guerrieri Munduruku del bacino del fiume Tapajós hanno raggiunto i loro “parenti” del fiume Xingu, per aiutare queste altre dieci etnie indigene a proteggersi dal grande progetto idroelettrico Belo Monte, che in modo disastroso si è installato negli anni seguenti, con una catena di impatti negativi immensurabili.

Don Milani diceva: «Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».
Il servizio più efficace, profondo e duraturo alla pace potrà venire solo da una buona politica.