lunedì 11 febbraio 2019

Colonizzazione, di nuovo?

“Quando sono arrivati, avevano la Bibbia, e noi la terra. Ci dissero: chiudete gli occhi e pregate. Quando li abbiamo aperti, noi avevamo la Bibbia e loro la terra”.
La critica dei popoli indigeni è forte. La Chiesa riconosce la sua complicità nella lunga storia di occupazione latinoamericana. La Conferenza di Puebla (1979) la definisce “un gigantesco processo di dominazioni”.
Nella sua visita in Chiapas, nel 2016, Papa Francesco ha chiesto perdono per “l'espropriazione e la contaminazione delle terre delle popolazioni indigene, perpetrate da persone intontite dal potere, dal denaro e dalle leggi di mercato".

Il Sinodo speciale per l’Amazzonia, in pieno corso, riconosce ancor oggi segni evidenti di un progetto colonizzatore: “I popoli originari amazzonici non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora. L’Amazzonia è una terra disputata su vari fronti”, ha denunciato Papa Francesco un anno fa, in Perú.

In Brasile, il nuovo governo sembra replicare una storia da cui, lentamente, ci stavamo scostando. Quando il fondamentalismo religioso si allea agli interessi del grande capitale, riappaiono i sintomi della colonizzazione ideologica e della riconquista dei territori.
Il nuovo Ministro della Sicurezza Istituzionale, generale dell’Esercito, ha affermato che conosce popoli indigeni che soffrono la fame, si trovano senza prospettive né medicine per curarsi. Ha dichiarato che gli indigeni vogliono essere cittadini, vogliono che i loro figli frequentino l’università. Quindi, non ha senso lasciarli isolati nelle loro terre.

Fa specie che debba essere un militare a comunicare alla nazione quali siano i desideri e progetti dei popoli indigeni, già che loro stessi si organizzano in associazioni e reti locali e nazionali, studiano la nostra cultura e le nostre leggi, hanno leaders formati in diritto, sociologia o agronomia e hanno eletto anche una deputata federale che li rappresenta.
Ma le affermazioni del generale si comprendono meglio quando si ascolta un altro brano della sua intervista: “Le demarcazioni di terra in Brasile sono state realizzate in regioni ricchissime di minerali”. Dietro la cortina di fumo dei (pochi) discorsi umanitari dell’equipe del Presidente, si nascondono consistenti interessi economici e si rivela una politica di cortissima visione.

Uno degli obiettivi del raffazzonato governo Bolsonaro, seppur diviso tra la vertente nazionalista ed una sfacciata sottomissione agli Stati Uniti, sembra essere la grande svendita del patrimonio brasiliano: dalle imprese pubbliche all’Amazzonia, dai giacimenti agli immensi riservatori sotterranei di acqua dolce.
E così, nel primo giorno del suo governo, il Presidente ha smontato le funzioni principali della Fondazione che si occupa dei popoli indigeni (FUNAI): identificare e demarcare i loro territori, controllare e proteggere le aree già demarcate. Compiti che vengono assunti dal Ministero dell’Agricoltura, dominato dai latifondiari, avversari storici degli indigeni.

Questi popoli, però, racchiudono in sé un’eredità ancestrale di resistenza e dignità. Papa Francesco diceva loro, in Perù: “Dalle vostre organizzazioni sorgono iniziative di speranza; (…) i popoli originari e le comunità sono guardiani della foresta, e le risorse prodotte grazie alla sua preservazione generano benefici per le vostre famiglie, per migliorare le vostre condizioni di vita, di salute ed educazione nelle vostre comunità”.
Prospettive molto diverse per guardare all’Amazzonia, che si preannuncia sempre più terra di conflitto.

Pace, alla maniera indigena

«É facile, per voi: vi riunite una volta all’anno per definire le priorità dell’anno seguente. Fate un elenco rapido di azioni, votate e scegliete ciò che la maggioranza impone».
È la critica di un membro del Consiglio Indigenista Missionario al modo in cui noi, “bianchi”, ci organizziamo nella Chiesa e nella società.
«Il popolo Krahô-Kanela, che seguo da tempo, quando sorge un conflitto convoca una grande assemblea. L’ultima è durata 15 ore di fila. Ciascuno si posiziona, dice la sua. C’è chi denuncia, chi chiede perdono, a volte si piange; si discute molto, si propongono alternative, non si chiude il dialogo finché non si è raggiunto un consenso. Ma, una volta ottenuto, nessun più si permette di contestarlo. È come una decisione sacra, perché consolidata e collettiva».

Il modo in cui un popolo si organizza dipende dalla sua cultura e dalla sua storia, ma influenza profondamente il suo futuro. Uno dei paradossi della nostra democrazia è che la società si costruisce sulla forza della maggioranza, ma le decisioni sono prese da poche persone. Nell’analisi della realtà e dei conflitti, riusciamo sempre meno ad ascoltarci e ci chiudiamo nel confronto tra gruppi di potere o convinzioni impermeabili.
Altre maniere di relazionarsi, impensabili per il nostro stile di vita, fanno da specchio alla nostra società e ci mettono in discussione. È uno dei motivi per cui Papa Francesco, nella Laudato Si e nella convocazione del Sinodo Speciale per l’Amazzonia, rimette al centro l’esperienza indigena, quasi come una rivelazione di percorsi di umanità che stiamo perdendo.

“Una buona politica è a servizio della pace”, è il titolo del messaggio di Francesco per la Giornata Mondiale della Pace 2019. Mons. Bregantini commenta che la politica deve essere rivalorizzata e non disprezzata, specialmente «in questo momento di sovranismo locale dove la mancanza di prospettive lunghe ci rende tutti miopi. (…) La pace nasce da relazioni serene, lungimiranti e intelligenti, basate sul pilastro della verità».

Fare politica alla maniera indigena, come stiamo cercando di spiegare, si basa sul principio che aiutando gli altri stiamo aiutando noi stessi. La politica lungimirante non si preoccupa solo di allontanare i problemi dalla propria terra, o di rafforzare la protezione dei confini di Stato, della proprietà e dei diritti privati.
Questa intuizione è sorprendentemente viva tra i popoli originari in Brasile. «Non staremo in pace se solo la nostra Terra Indigena è riconosciuta ufficialmente: è un diritto di tutti i nostri “parenti”» - commenta un leader Kanela.

Queste affermazioni si dimostrano nei fatti, come a luglio 2012, quando 20 guerrieri Munduruku del bacino del fiume Tapajós hanno raggiunto i loro “parenti” del fiume Xingu, per aiutare queste altre dieci etnie indigene a proteggersi dal grande progetto idroelettrico Belo Monte, che in modo disastroso si è installato negli anni seguenti, con una catena di impatti negativi immensurabili.

Don Milani diceva: «Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».
Il servizio più efficace, profondo e duraturo alla pace potrà venire solo da una buona politica.