“José, che piacere rivederti! Allora, avete già seminato nelle terre attorno al villaggio?
Grazie a Dio, sì, padre. Se il cielo ci benedice, anche quest’anno avremo fagioli e manioca!”
Ricominciamo un nuovo anno. I cicli della vita si fermano, a gennaio, per riposare e farsi fecondare dalla pioggia. Il ritmo frenetico urbano rallenta un po’, preparandosi a riprendere in breve. Ricomincia anche il Brasile? Purtroppo no.
Dom Erwin Krautler, vescovo difensore dei popoli indigeni brasiliani, commenta che “questo golpe è sistemico”.
Da quando il presidente che consideriamo illegittimo ha scalzato il Governo eletto in 2014, sta avvenendo un attacco strutturale a tutte le dimensioni della vita nazionale: vengono modificate le leggi ambientali, le regole del lavoro e della previdenza sociale, i principi e gli stanziamenti pubblici per la salute e l’educazione. Si cerca di svendere agli interessi privati del grande capitale patrimoni pubblici, acqua, terra, riserve minerali e fossili.
Le conseguenze cominciano a sentirsi, nel bilancio di 2017: più di quaranta milioni di lavoratori sopravvivono con meno di 250 euro di stipendio; abbiamo raggiunto la soglia di 13 milioni di disoccupati ed è aumentato molto il lavoro precario e informale. È tornata la fame e aumentano i debiti, la violenza, lo scoraggiamento.
Nella scena nazionale, brillano i sorrisi dei fantocci politici che con equilibrismo stanno riuscendo a mantenersi in piedi, sostenuti dagli enormi interessi di investimento internazionale.
Guardandoci indietro, osserviamo un ciclo che si assomiglia, in diverse parti del mondo.
Si è consolidata una disillusione globale riguardo alla rappresentazione politica. Il sociologo spagnolo Manuel Castells la definisce “totale decomposizione del sistema politico”.
In reazione, soprattutto nei primi anni del nostro decennio, si sono messi in moto nuovi movimenti di piazza, rivendicando in varie parti del mondo (ed anche in Brasile) dignità e democrazia. Ma ad essi sono mancati strumenti legittimi per imporre il cambiamento. E in buona parte si sono sgonfiati.
Così, si è affermato un progressivo senso di impotenza, che sfocia oggi nel disanimo, ritirandosi ognuno alla sua vita privata e virtualizzata, oppure in una ribellione disorganizzata e disperata, poco efficace per il cambiamento.
In Brasile ogni ansia di ricostruzione sta venendo canalizzata verso le elezioni del prossimo ottobre, con il rischio che si inghiottano passivamente nuove deleterie riforme anti-sociali nei prossimi nove mesi!
Per lo meno, ci sarà restituito un Governo frutto della volontà popolare (qualsiasi essa sia: si sa che nei momenti di crisi il rischio del populismo si innalza).
Ma resterà alta la probabilità, semplicemente, di ricominciare il ciclo descritto sopra. “Se, pur in paesi con caratteristiche diverse e specificità proprie, sorge lo stesso fenomeno, allora possiamo pensare come ipotesi che è il modello che sta crollando” – conclude Castells.
Ad ogni crisi corrisponde una rinascita. Ma non riusciamo ancora a vedere in quale direzione; cerchiamo con il cuore stretto nuove intuizioni.
Uno spunto ci viene dai popoli indigeni, eterni resistenti in questo lungo tempo coloniale a loro imposto. Una speranza viene dal ricominciare nei territori, rilocalizzare l’economia e la gestione politica, riscoprire le radici per difendere il futuro degli spazi collettivi.
È una piccola semente che, in questo inverno, possiamo seminare. Che la pioggia e il cielo la benedicano!
Grazie a Dio, sì, padre. Se il cielo ci benedice, anche quest’anno avremo fagioli e manioca!”
Ricominciamo un nuovo anno. I cicli della vita si fermano, a gennaio, per riposare e farsi fecondare dalla pioggia. Il ritmo frenetico urbano rallenta un po’, preparandosi a riprendere in breve. Ricomincia anche il Brasile? Purtroppo no.
Dom Erwin Krautler, vescovo difensore dei popoli indigeni brasiliani, commenta che “questo golpe è sistemico”.
Da quando il presidente che consideriamo illegittimo ha scalzato il Governo eletto in 2014, sta avvenendo un attacco strutturale a tutte le dimensioni della vita nazionale: vengono modificate le leggi ambientali, le regole del lavoro e della previdenza sociale, i principi e gli stanziamenti pubblici per la salute e l’educazione. Si cerca di svendere agli interessi privati del grande capitale patrimoni pubblici, acqua, terra, riserve minerali e fossili.
Le conseguenze cominciano a sentirsi, nel bilancio di 2017: più di quaranta milioni di lavoratori sopravvivono con meno di 250 euro di stipendio; abbiamo raggiunto la soglia di 13 milioni di disoccupati ed è aumentato molto il lavoro precario e informale. È tornata la fame e aumentano i debiti, la violenza, lo scoraggiamento.
Nella scena nazionale, brillano i sorrisi dei fantocci politici che con equilibrismo stanno riuscendo a mantenersi in piedi, sostenuti dagli enormi interessi di investimento internazionale.
Guardandoci indietro, osserviamo un ciclo che si assomiglia, in diverse parti del mondo.
Si è consolidata una disillusione globale riguardo alla rappresentazione politica. Il sociologo spagnolo Manuel Castells la definisce “totale decomposizione del sistema politico”.
In reazione, soprattutto nei primi anni del nostro decennio, si sono messi in moto nuovi movimenti di piazza, rivendicando in varie parti del mondo (ed anche in Brasile) dignità e democrazia. Ma ad essi sono mancati strumenti legittimi per imporre il cambiamento. E in buona parte si sono sgonfiati.
Così, si è affermato un progressivo senso di impotenza, che sfocia oggi nel disanimo, ritirandosi ognuno alla sua vita privata e virtualizzata, oppure in una ribellione disorganizzata e disperata, poco efficace per il cambiamento.
In Brasile ogni ansia di ricostruzione sta venendo canalizzata verso le elezioni del prossimo ottobre, con il rischio che si inghiottano passivamente nuove deleterie riforme anti-sociali nei prossimi nove mesi!
Per lo meno, ci sarà restituito un Governo frutto della volontà popolare (qualsiasi essa sia: si sa che nei momenti di crisi il rischio del populismo si innalza).
Ma resterà alta la probabilità, semplicemente, di ricominciare il ciclo descritto sopra. “Se, pur in paesi con caratteristiche diverse e specificità proprie, sorge lo stesso fenomeno, allora possiamo pensare come ipotesi che è il modello che sta crollando” – conclude Castells.
Ad ogni crisi corrisponde una rinascita. Ma non riusciamo ancora a vedere in quale direzione; cerchiamo con il cuore stretto nuove intuizioni.
Uno spunto ci viene dai popoli indigeni, eterni resistenti in questo lungo tempo coloniale a loro imposto. Una speranza viene dal ricominciare nei territori, rilocalizzare l’economia e la gestione politica, riscoprire le radici per difendere il futuro degli spazi collettivi.
È una piccola semente che, in questo inverno, possiamo seminare. Che la pioggia e il cielo la benedicano!
1 commento:
Illuminante nella sua severità, ma con una speranza incrollabile che forse in Italia non c'è più
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