Alla fine di
un’accurata serie di esami clinici, gli fu diagnosticato un diabete molto
forte. Ricevere il referto dai medici, in ospedale, lo lasciò in stato di shock.
Nel cammino verso casa, un’altra notizia inattesa: aveva appena ereditato la
gestione della pasticceria più rinomata della città.
Può essere
una delle metafore per il Brasile, oggi.
L’”eredità”
è stata scoperta nel 2006; si è trattato del fatto più importante nella storia dell’industria
del petrolio. Un immenso giacimento sottomarino di petrolio, per 800 Km lungo
la costa brasiliana, a circa 8000 mt di profondità, al di sotto di uno strato
geologico di sale (da qui il nome “pré-sal”).
La quantità
reale di oro nero è ancora sconosciuta, ma si calcola che potrà offrire
profitti tra i 5 ed i 30 mila miliardi di dollari (tra 125 e 375 miliardi ogni anno).
È una prospettiva che sposterebbe il Brasile al livello dell’Arabia Saudita,
tra i maggiori produttori del pianeta.
Senza
nemmeno conoscerne l’effettiva dimensione, il Governo sta già mettendo all’asta
il giacimento, al buio, cedendo i diritti di sfruttamento dei prossimi
trent’anni e privatizzando così almeno il 95% di questo patrimonio.
Il primo
tentativo, per fortuna, è andato a vuoto: un’adesione molto ridotta,
probabilmente per il rischio dell’investimento in una prospettiva di forte
diminuzione del prezzo del barile di petrolio. Ci può essere, dietro, anche la
lobby dei paesi dell’OPEC, che non vedono di buon occhio un’iniezione massiccia
di offerta sul mercato, il che farebbe cadere ancora di più il valore nominale.
Il pré-sal, agli
occhi dei vari governi del Brasile, è un’opportunità unica di ricchezza, che
potrebbe anche essere investita in sviluppo sociale e qualità di vita della
gente. Eppure, sfruttare questo giacimento significherebbe retrocedere su
questioni ed impegni dibattuti ed assunti durante decenni di ricerca e
confronto politico per transizioni verso l’energia pulita e contro il
riscaldamento globale.
Il Sinodo
dell’Amazzonia ha preso posizione chiara contro il modello economico
estrattivista, che i vescovi di America Latina definiscono “un’incontrollabile
tendenza a convertire in capitale i beni della natura”.
Nella
Laudato Si’, Papa Francesco ha dipinto bene il paradosso tra una visione di
largo respiro per il bene dell’intera creazione e una politica di corte vedute:
“Il
dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da
popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine.
Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a
irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo
o mettere a rischio investimenti esteri. La miope costruzione del potere frena
l’inserimento dell’agenda ambientale lungimirante all’interno dell’agenda
pubblica dei governi. (…) La grandezza politica si mostra quando, in momenti
difficili, si opera sulla base di grandi princìpi e pensando al bene comune a
lungo termine” (LS 178).
L’ambiguità
dello sviluppo sfida la politica: non sempre la soluzione più conveniente è il
vero Bene. Sempre meno il benessere di un popolo e l’inclusione dei più poveri
saranno garantiti dall’economia estrattiva.
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