giovedì 8 novembre 2018

E se sbagliamo strada?!

É come se fossimo su un’autostrada, ad alta velocità, davanti a un bivio. Compare quell’angoscia di non sbagliare strada, perché -una volta imboccato il cammino errato- non si può tornare indietro.
Sull’auto che corre, ci chiediamo sbigottiti: come abbiamo potuto arrivare così in fretta fino a questo punto?

Il Brasile è spaccato, le elezioni non sono occasione per disputare progetti di futuro o riflettere insieme sui cammini possibili. Prevale l’odio alla politica, il voto in molti casi è un grido di protesta, un inno da stadio, una bomba innescata per far saltare tutto.
Una deformazione somatica della società brasiliana porta molti a pensare con la pancia, guardare con occhi velati dalla paura, agire con il sangue iniettato di odio.
Da secoli la nostra società è dominata dalla divisione. Il Brasile è nato con l’imposizione coloniale di un progetto di saccheggio; da allora, per difendere i privilegi di pochi, continuano ad essere sacrificate molte persone.

Ma come è possibile che tanta gente appoggi ancora oggi questa logica sacrificale? Perché riusciamo poco a percorrere i cammini di educazione e liberazione che Paulo Freire ed il suo movimento hanno aperto?
Il dibattito politico e la formazione dell’opinione pubblica, oggi, sono fortemente influenzati dai circoli di comunicazione. Non si tratta più della comunicazione lineare che offre diverse letture della realtà e può metterle anche a confronto.
La comunicazione avviene sempre più per gruppi omogenei, tra persone che condividono le stesse idee e che hanno bisogno di sentirsi rassicurati da altri, che le convalidino e rafforzino. Circoli impermeabili, sempre più aggressivi, considerano l’altro un nemico. La campagna elettorale di molti candidati si è giocata così, ridotta ad una battaglia di meme e vignette su whatsapp.

In Brasile è stato coniato anche un nuovo termine: dalla post-verità delle fake news alla “auto-verità”: il contenuto non importa, è sufficiente l’atto del parlare. Gli avvenimenti, la verità, non importano. Il semplice fatto di manifestarsi con fermezza, gridare e denunciare, proporre soluzioni infattibili ma populiste è considerato come coraggioso, onesto, autentico. L’estetica ha preso il posto dell’etica.

Ma cosa ci dà speranza, allora? Molta gente che rompe il circolo virtuale e riprende la piazza come luogo di presenza, incontro, manifestazione a faccia aperta. I gruppi in cui ancora si fa lo sforzo di parlarsi guardandosi negli occhi, studiando un tema con rispetto, cercando di ascoltarsi reciprocamente.
 Le comunità cristiane di base in cui la fede si abbraccia alla storia, la Parola ispira la vita e da essa è illuminata. Le pastorali ed i movimenti sociali che continuano a credere che al di fuori dei poveri non c’è salvezza per la Chiesa e per il mondo, e rimangono coraggiosamente accanto a loro. Fanno del servizio agli esclusi una profezia anche per la politica.

Tra le immagini di Brasile che più vorrei ricordare, in queste settimane di angoscia, c’è quella di milioni di donne, a fine settembre: hanno occupato le strade e marciato di forma non violenta e creativa, in tante città del Brasile, per dire no al movimento fascista, razzista e misogino che si sta consolidando attorno al candidato militare. Non difendevano un partito, avevano molteplici appartenenze ed il coraggio di manifestare.

Solo la violenza può metterle a tacere, e purtroppo è ciò che è cominciato ad accadere in ottobre: persone aggredite, umiliate, anche uccise per aver affermato la sua critica all’ombra di dittatura che rischia di ristabilirsi nel paese.
Stiamo andando ad alta velocità incontro a un bivio. Se sbagliamo strada, non si può più tornare indietro.

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